Nelle carte dell'inchiesta Gerione che ha messo nei guai Francesco Paolo Maniscalco e i fratelli Rubino torna in auge il colpo multimiliardario al Monte dei pegni di Palermo, nel 1991. «Lo vedono che sono stati rubati», dicevano intercettati
La colonizzazione commerciale di Cosa nostra a Roma Bar aperti con il bottino di una rapina, quadri e orologi
Otto «uomini d’oro» armati con sette pistole e un fucile per mettere a segno una rapina da un miliardo, in gioielli, e 40 milioni di Lire in contanti. Era un caldo 13 agosto 1991 quando i picciotti di Cosa nostra centrarono un colpo destinato a rimane nella storia criminale di Palermo: quello al Monte dei pegni di via Pasquale Calvi. Trent’anni dopo una piccola parte di quel tesoro sembra essere riemerso dal nulla. Forse venduto per finanziare l’apertura, a Roma, di alcuni noti bar all’ombra del mandamento mafioso palermitano di Porta Nuova. Una «colonizzazione commerciale», come la definiscono gli investigatori nelle carte dell’inchiesta Gerione, che nei giorni scorsi ha fatto tornare sotto la luce dei riflettori giudiziari Francesco Paolo Maniscalco e i fratelli Benedetto, Francesco e Salvatore Rubino.
Maniscalco il pomeriggio del 13 agosto di trent’anni fa si trovava proprio in via Pasquale Calvi, non come cliente ma come componente della banda che fece irruzione negli uffici. Da quel giorno di strada ne ha fatta. Posata la pistola e messo nel cassetto il passamontagna, Maniscalco ha indossato la giacca e la cravatta e si è trasformato in un imprenditore, attivo tra bar e torrefazione del caffè. Interessi che per gli inquirenti viaggiavano sulla rotta Palermo-Roma proprio grazie alla presunta complicità della famiglia Rubino. Un legame non solo economico, poiché secondo i magistrati l’ex rapinatore avrebbe «ceduto ai Rubino una parte del bottino dello storico colpo», ma anche dettato da parentele che si incrociano, seppur non in maniera diretta.
Una delle sorelle Rubino è infatti la vedova di Cesare Giuseppe Zaccheroni. Uomo d’onore del mandamento di Porta Nuova, destinato a scalare le gerarchie mafiose ma con una carriera criminale interrotta nel 1982 a causa di un incidente mentre viaggiava a bordo di una moto. Quel giorno era diretto a casa di alcuni mafiosi per avvertirli che i loro nomi era stati inseriti in una maxi inchiesta su Cosa nostra. Ma di Zaccheroni è parente anche Francesco Maniscalco. Il padre di quest’ultimo, Totuccio Maniscalco, uomo d’onore della famiglia di Corso dei mille morto nel 2005, era sposato con una sorella di Zaccheroni.
Per i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Roma i Rubino sarebbero «il punto di riferimento dell’organizzazione mafiosa per l’impiego di capitali di incerta provenienza. Capaci di realizzare lucrosi investimenti poiché in grado di meglio mimetizzarli». L’appoggio di Cosa nostra si sarebbe celato dietro alcune teste di legno e sei società, quattro delle quali attive nel settore della ristorazione. In mezzo le figure di Maniscalco e di Salvatore Cillari, anche lui ritenuto orbitante nel gruppo di Porta Nuova e fratello di due pezzi da novanta del mandamento palermitano. La colonizzazione tra i rioni di Testaccio e Trastevere sarebbe cominciata con la Sicilia e Duci, poi svuotata dei suoi beni, fallita e sottoposta a confisca nel 2018.
Soldi e investimenti sarebbero così finiti nel bar pasticceria da Nina, inaugurato a fine maggio 2019 in via dei Vascellari. Mesi prima del taglio del nastro telecamere e microspie registrano decine di incontri e telefonate in una casa romana. È quella di Antonina Puleo e del marito Benedetto Rubino. «Sai a quanto sono arrivata di cose che mi sono venduta? Siamo arrivati già a 55mila euro», raccontava la donna alla cognata. Soldi provenienti da servizi in argento, acquasantiere ma anche orologi di lusso, come un Cartier con brillanti e un Audemars Piguet. La parola d’ordine era solo una: «monetizzare».
Anche vendendo degli storici dipinti, a quanto pare rubati. Dalle tele, realizzate dai pittori Giuseppe Puricelli Guerra, Glauco Cambon e Luigi Di Giovanni, i Rubino intascano circa 1000 euro a quadro. Ma l’operazione si rivelò più complicata e lunga del previsto, considerata la provenienza illecita della merce. «Lo vedono che sono stati rubati 28 anni fa», Antonina Puleo aveva le idee chiare e non ne faceva mistero al marito prima di un faccia a faccia con un importante gallerista romano. «Gli dico che è morta mia madre – aggiungeva – e non so dove li ha comprati». La versione però andava aggiustata: «No tua madre – replicava Rubino – Tu gli devi parlare di tua nonna, la nonna della nonna perché sono cose che si tramandano». Il 29 maggio 2019 tutte le operazioni si concludono con l’annuncio alla signora Puleo che due quadri sono stati comprati all’asta. «Ci siamo riusciti, finalmente – spiegava l’intermediario di un gallerista – è più facile ritirare un intero appartamento che due quadri, glielo assicuro». «