Si discute anche di Cosa Nostra al Salone Internazionale del Libro in corso a Torino. A parlarne sono un collega di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, uno dei più importanti studiosi della criminalità organizzata e il procuratore aggiunto di Reggio Calabria. Molti dati e una certezza: «Parti di Stato fanno affari con i clan»
Italiani e mafia: «Un Paese di coglioni»
«Il figlio che muore di overdose l’ha veramente ammazzato soltanto il disgraziato che gli ha venduto la droga, o forse è stato anche il crimine organizzato?», ha chiesto retoricamente Marco Neirotti, giornalista di “La Stampa”, aprendo l’ incontro del Salone internazionale del libro con Giuseppe Ayala, magistrato e collega dei giudici Falcone e Borsellino, Antonio Nicaso, studioso della mafia e scrittore, e Nicola Gratteri, procuratore aggiunto a Reggio Calabria.
La risposta al quesito iniziale è scontata: chi uccide non è il singolo spacciatore, ma l’intera organizzazione.
Lo sa bene Ayala che ha «visto la nascita del pool antimafia di Palermo» e che ne è stato parte, «anche se non mi piace dire che ne sono stato protagonista».
«Non eravamo né eroi né superman, ma la storia è nota». Quella storia parla di una guerra tra clan scoppiata il 23 aprile del 1981, quando i corleonesi hanno manifestato le loro intenzioni di diventare i capi della mafia palermitana. «Da allora al 1983 ci sono stati trecento omicidi di mafia all’anno, e ancora cos’era, questa “mafia”, non si sapeva». Però c’era, e aveva rapporti con lo Stato. «Rapporti che si sono interrotti, in quegli anni: le istituzioni comunicavano con i capi di Palermo e i corleonesi li stavano ammazzando uno dopo l’altro. La vittoria dei corleonesi ha sancito la ripresa delle comunicazioni con lo Stato». Ayala non ha dubbi sul dopo: «Lo Stato ha fermato il lavoro del pool, non gli omicidi di Falcone e Borsellino».
Cosa Nostra, nel frattempo, si era manifestata per quello che era: «Un sistema di potere, capace di adattarsi ai cambiamenti politici ed economici».
Gli anni sono passati, eppure la situazione non è cambiata, soprattutto dal punto di vista politico: «Come durante gli anni del pool di cui facevamo parte io, Falcone e Borsellino, anche oggi c’è una parte dello Stato che la mafia la combatte, e un’altra parte che, invece, ci fa affari».
Affari convenienti e remunerativi, secondo i dati presentati da Nicaso, che insieme a Gratteri ha scritto di recente La Malapianta (Mondadori), un libro intervista sulla ‘ndrangheta: «La ‘ndrangheta è capace di fatturare 44 miliardi di euro ed è diventata l’associazione criminale più ricca e meno studiata, quindi la più potente». La ‘ndrangheta si infiltra, crea reti di contatti e stringe alleanze, allunga i suoi tentacoli in Europa, negli Stati Uniti e perfino in Australia. «È come un avvoltoio: trae vantaggio dalle grandi crisi economiche, dai terremoti, dai crack finanziari. L’abbiamo sempre sottovalutata, eppure già nel 1869 le elezioni amministrative di Reggio Calabria vengono annullate per infiltrazioni mafiose».
Torna quindi il tema dei rapporti coi governi: «La politica per la ‘ndrangheta è come l’acqua per i pesci. Questo Governo ha fatto alcune cose buone nella lotta contro la criminalità organizzata, ma ne sta programmando due che ci farebbero tornare all’annozero: il decreto contro le intercettazioni, e quello che prevede la possibilità di mettere all’asta i beni confiscati non assegnati».
Ma il malaffare sposta voti, ha sottolineato Gratteri, «senza distinguere tra destra e sinistra». La ‘ndrangheta sta dalla parte del cavallo vincente, a prescindere dal suo colore politico.
Fare lotta alla mafia parlando di etica e morale, inoltre, sarebbe inutile: «Bisogna spiegare che essere ‘ndranghetisti non è conveniente, che spacciando si finisce in galera per dieci anni almeno e che, in quei dieci anni, il boss sì manterrà la tua famiglia, ma probabilmente abuserà sessualmente di tua moglie».
Dalle campagne di prevenzione alle politiche di eliminazione del problema, sembra esserci troppo di sbagliato. «Il processo breve è un’altra cosa che non riesco a concepire», ha argomentato Gratteri.
«Per ridurre i tempi della giustizia basterebbe informatizzare il sistema e garantire la certezza della pena». E le carceri sovraffollate? «Per svuotarle non si devono fare amnistie più o meno palesi, bensì accordi bilaterali con gli altri Paesi».
Soluzioni apparentemente semplici, che nessuno riesce a mettere in atto. Forse perché, citando Ayala, «noi italiani ci crediamo un popolo di furbi, e in realtà siamo un popolo di coglioni».