Io e Rigel

Caro Rigel, mi rendo conto che scriverti una lettera non è una buona idea. Non ho mai avuto l’impressione che ti interessi molto imparare a leggere, ma d’altro canto neanche io ad abbaiare sono un granché. Tranne, qualche volta, alla luna.

Ti scrivo per dirti di non preoccuparti riguardo a quella faccenda del capobranco e dell’individuo alfa che abbiamo ascoltato dalla TV. Sono parole dette tanto per dire da chi non sa che dire. Da chi probabilmente non ha mai avuto un cane. O almeno non ha avuto te, come cane. Ti assicuro che non ho alcuna voglia di diventare un leader e, l’ho capito, neanche a te importa molto a chi tocchi passare per primo dal cancello o decidere quando è tempo di giocare.

L’ho capito già dalla prima corsa fatta insieme sulla spiaggia solitaria. Quando ho lanciato d’impulso un legno naufragato lì chissà da dove e ti ho osservato partire di scatto, raccoglierlo virando rapido e corrermi incontro quasi al galoppo. All’ultimo istante, quando sembrava quasi che volessi abbattermi per raggiungere lontane spiagge atlantiche depositarie di sedimenti di bastoncini, ti ho visto scartare di lato con un balzo. Ti sei accucciato, hai allargato le fauci e il relitto è tornato nella mia mano. E siamo stati entrambi contenti, immagino, di aver soddisfatto le leggi che qualche altro Capobranco ha assegnato ad ogni uomo che ha un cane, un legno per mano ed un luogo in cui lanciarlo.

Ti scrivo, inoltre, perché ho passato molto tempo ad osservarti dalla mia postazione privilegiata di essere umano. Mi piaci moltissimo quando giochi fra le siepi, assorto come un bambino nella cecità del passato e del futuro; quando ti distoglie dal gioco una voce superiore che solo tu senti e ai suoi ordini prendi in bocca ciascuna delle tue ciotole (quella dell’acqua, quella per le crocchette, quella per la pappa…..) e le sposti come un imbroglione napoletano fa con le tre carte. Poi ti perdi in chissà quale rompicapo, fiuti l’aria: la cagna dei vicini è già davanti al cancello e mi tocca tenerti al guinzaglio per evitare il borbottio del dirimpettaio e adozioni riparatrici di cuccioli fra una sessantina di giorni. È allora che mi vedo anche io come te, legato alla catena del tempo che, per quanto rapido e lontano io corra, corre con me. Mi distogli tu stesso dalla filosofia: è il tramonto, è il momento della passeggiata, le ore più belle del cane. Quelle in cui cominci ad abbaiare seriamente per comunicare a tutta la famiglia qualcosa di importante “sulla vita, sulla morte e sul senso di tutto questo che ci gira intorno.”

I tuoi tentativi vengono puntualmente fraintesi, ma ti valgono spesso un biscottino WOW “E il tuo cane dirà BAU.” Perché siamo fatti così, noi umani, siamo ottusi. Anche se nella nostra squadra hanno giocato campioni che tu apprezzeresti, tipo Jack London, Jerome K. Jerome  o i disegnatori di Belle e Sebastien.

Volevo infine dirti che un giorno, tentato dall’estasi della contabilità, ho steso la lista di quello che ti ho insegnato e di quello che ho imparato da te.

Leggo che sai stare seduto sulle zampe posteriori quando è ora di mangiare, hai imparato a ballare il rock and roll su due zampe con la ragazza che ti ha scelto il nome, hai imparato a non inseguire i gatti e a non saltare addosso alle persone sconosciute.

Poi è il mio turno e mi accorgo che ti sono debitore ora che non dubito della fedeltà degli amici, ora che conosco lo sguardo docile alle meraviglie dell’universo e la strafottenza agli ordini quando la bellezza della vita chiama. Soprattutto da te ora so che la voglia d’amore è una necessità di tutte le creature, me lo insegni ogni sera quando mi ripaghi di una giornata smisurata tradendo tutti i tuoi sensi in festa per il mio ritorno, con una coda che ruota impazzita.

Basterà questa lettera per ripagarti di tutto questo? Lo spero. Fraternamente tuo,

Vincenzo


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