«Queste pizze non le voglio perché le hanno preparate con le loro mani». Le mani sono quelle di Luis, Wurry a Alisan. Tre giovani gambiani che da anni lavorano in una pizzeria a Licata, in provincia di Agrigento. «Anche le mie mani sono scure quasi quanto le loro, a guardare bene», dice a MeridioNews Gianluca […]
«Non vogliamo le pizze preparate da mani nere». La denuncia di razzismo dal titolare di un locale di Licata
«Queste pizze non le voglio perché le hanno preparate con le loro mani». Le mani sono quelle di Luis, Wurry a Alisan. Tre giovani gambiani che da anni lavorano in una pizzeria a Licata, in provincia di Agrigento. «Anche le mie mani sono scure quasi quanto le loro, a guardare bene», dice a MeridioNews Gianluca Graci, il titolare della Fauzzeria che ha denunciato gli insulti a sfondo razzista che subiscono i suoi dipendenti da parte di alcuni clienti. C’è chi ha dichiarato di non andare a mangiare nel locale proprio perché a mettere le mani tra farina e ingredienti sono mani nere; chi per lo stesso motivo ha lasciato le pizze calde sul bancone dopo averle ordinate a portar via; qualche collega ha addirittura suggerito al proprietario di seguire il suo esempio e tenerli chiusi in cucina senza farli vedere.
«E, invece, loro sono in bella mostra e lì resteranno perché sono orgoglioso di loro e del lavoro che fanno. Mentre clienti come questi meglio perderli che trovarli», afferma Graci che davanti al suo locale ha anche esposto un cartello chiaro. C’è una pizza tagliata in quattro fette, ognuna presa da una mano dalla pelle di sfumature diverse e la scritta: “Se pensi di essere razzista, parliamone. Solo gli stupidi non cambiano idea“. E, a Licata, gli stupidi si sarebbero focalizzati sui tre dipendenti gambiani della Fauzzeria (il locale aperto nel 2019 che prende il nome dalla tipica fauzza licatese, la pizza ovale preparata con pane avanzato e ingredienti semplici, una sorta di facci i veccia). «Nella mia attività – racconta Graci – ci sono anche due lavoratori che arrivano dall’Est Europa, in particolare dall’Albania, Kledi e sua madre. Ma loro hanno la pelle bianca e nessuno ha avuto nulla da ridire».
Molto, invece, è stato detto e ridetto sui tre dipendenti gambiani: Luis, Wurry e Alisan. Il primo è arrivato a Lampedusa quando aveva solo otto anni, oggi che ne ha 19 è il responsabile degli impasti senza glutine. «Parla italiano benissimo – ci tiene a sottolineare il titolare del locale – e, a conti fatti, ha vissuto più in Sicilia (prima di Licata a Palma di Montechiaro, sempre nell’Agrigentino, ndr) che in Africa». A stendere, condire e infornare le pizze è Wurry, 22enne anche lui arrivato dal Gambia anni fa. Alisan, invece, è il responsabile della cucina ma, al momento, è andato a Milano per partecipare a un corso di cucina. «Tutti e tre hanno iniziato, esattamente come me, da lavapiatti – racconta Graci – Hanno imparato velocemente, sono diventati dei professionisti a cui sono orgoglioso di avere trasmesso la mia passione».
Una passione che resiste agli sguardi e alle parole di chi si ferma al colore della loro pelle. «C’è chi ha lasciato le pizze sul bancone, senza vergognarsi di dire di non volerle perché le avevano preparate loro», riporta ancora stupito il titolare della Fauzzeria amareggiato dal fatto che alcuni commenti del genere siano arrivati anche da persone vicine. Al padre di Graci, poliziotto in pensione, sarebbe stato un ex collega a confidare di non andare più a mangiare la pizza nel locale perché «la condiscono i ragazzi di colore». Un eufemismo quello usato da Gianluca Graci per non riportare esattamente i termini utilizzati dall’ex agente di polizia. A fare di più sono stati alcuni colleghi, proprietari di altri locali di Licata. «Sono stati diversi a consigliarmi di seguire il loro esempio: “Anche io ce li ho, però li tengo nascosti in cucina“. Una frase che mi fa vergognare al posto loro», aggiunge Graci che di seguire quel consiglio non richiesto non ha alcuna intenzione. «Di fronte a tutto questo resto incredulo, provo rabbia e mi cadono le braccia perché loro ci restano male ma non dicono niente e continuano a lavorare. Ci siamo scordati – conclude il titolare – che i primi migranti siamo stati noi tant’è che qui dice ancora: “Licatisi, uno ogni paisi” (Licatese, uno per ogni paese, ndr)».