Il cronista nato a Cagliari, ieri sera, ha ritirato il riconoscimento dedicato al fondatore de I Siciliani. A MeridioNews ha raccontato l'emozione e le difficoltà che affronta il giornalismo. «Dire che non c'è bisogno di giornalisti è una pura illusione»
Informazione e antimafia, intervista a Giovanni Bellu Dai misteri d’Italia alla vittoria del premio Fava 2019
Il suo aereo, proveniente da Roma, arriva in una Catania congelata con decine di minuti di ritardo. Il tempo di lasciare i bagagli in albergo, un caffè, e poi la commemorazione per il 35esimo anniversario della morte di Pippo Fava. Prologo alla consegna del premio intitolato al giornalista ucciso da Cosa nostra nella cornice del teatro Giovanni Verga. A vincere l’edizione 2019 è Giovanni Maria Bellu. Partendo dalla sua Sardegna ha indagato sui grandi misteri d’Italia da inviato del quotidiano Repubblica. Indimenticabile l’opera I fantasmi di Portopalo. Natale 1996. Nel presente di Bellu c’è il ritorno in Sardegna e il salto nel mondo del giornalismo 2.0. Un professionista con la schiena dritta che nei mesi scorsi ha lasciato, dopo sei anni, la direzione di Sardinia Post. Il motivo? La richiesta dell’editore di modificare la linea politico-editoriale del giornale.
Cosa significa per te, che sei un giornalista navigato, vincere un premio come quello dedicato a Pippo Fava?
«È un grande onore ma anche una sorpresa. Perché si tratta di un riconoscimento alla libertà di stampa che nasce attorno alle tematiche dell’antimafia. Io sono un giornalista sardo, ho lavorato a Roma e mi sono occupato di Cosa nostra passando da Catania e Palermo, ma non in maniera sistematica».
L’antimafia in Sicilia è come un brand. Una medaglia da cucirsi al petto. Giornalisti, imprenditori e politici continuano a costruire carriere su questo. Tu che non vivi quotidianamente la realtà siciliana che idea ti sei fatto?
«Siamo in questa situazione perché siamo cresciuti, penso alla mia generazione, con una serie di valori fondamentali che ci sono stati donati ma che non sono stati coltivati. Pensando che una volta conquistati fossero ormai intoccabili e scolpiti nel granito. Come in una retorica della democrazia che ci ha fatto perdere il senso e la sostanza delle ragioni fondanti. Con l’antimafia è avvenuta la stessa cosa. Qualcuno ha approfittato di questa retorica dell’antimafia e mi viene da domandarmi quanti, allo stesso modo, se ne sono approfittati della retorica della democrazia?».
Informazione e libertà di stampa non sono nel loro periodo migliore. Cosa ne pensi?
«Il comparto industriale dell’informazione, che attraversa una situazione difficile, viene trattato da quella che sembra essere la parte politica maggioritaria di questo Paese senza interventi concreti, eliminando i già pochi sostegni che c’erano. La definirei una situazione di emergenza in cui, contemporaneamente, le forze dell’opposizione non hanno sviluppato alcuna cultura per la libertà dell’informazione».
C’è un responsabile se ci troviamo in questa situazione?
«Se il giornalismo non è riconosciuto come professione, una larga responsabilità è nella categoria dei giornalisti, che non hanno difeso il loro lavoro. A partire dagli anni ’90 quando fu introdotta la possibilità di diventare giornalisti con le scuole e le università anziché essere assunti da qualche editore. Ecco quello era il momento di rendere obbligatorio un percorso di studi».
In tutto questo i cittadini sembrano avere sempre meno bisogno del filtro di un giornalista nell’era dei social network.
«Penso che oggi ci sia ancora più bisogno di un’informazione professionale. I lettori, con il gran circolare di notizie specie sul web, hanno una grande difficoltà nel farsi un quadro preciso della situazione. È vero che nella rete trovi tutte le notizie ma è anche vero che generalmente non c’è il tempo di fare una selezione. Per questo motivo è ancora più importante avere dei giornalisti che riescano a scegliere le notizie così da fornire un quadro della realtà. Questo è il lavoro che viene fatto sui quotidiani online. Dire che non ce ne sia bisogno è una pura illusione».
Eppure la comunicazione dei politici passa quasi esclusivamente da piattaforme social evitando le domande.
«Chi è mediamente istruito sa benissimo che la mediazione di un giornalista è necessaria. Ancora oggi ci sono politici che pongono delle condizioni per essere ospiti in determinate trasmissioni. Gli organi d’informazione vogliono essere affossati perché cosa c’è di meglio, per un politico, nel fare dei comizi sulle proprie pagine Facebook con migliaia di seguaci senza nessun filtro?».
Tu sei divenuto celebre perché hai scavato in alcuni misteri italiani. Nel 1996 il caso di Portopalo e l’immigrazione. Una tematica impopolare in un Paese che è diventato razzista o lo è sempre stato?
«Io penso che l’uomo sia per sua natura xenofobo. Nel senso che è normale avere paura del diverso e non bisogna vergognarsene. Alcuni valori sono diventati tali soltanto dopo la seconda guerra mondiale e penso al diritto d’asilo e ai diritti umani. L’errore è stato pensare a questi valori come un punto d’arrivo e non d’inizio. Senza sviluppare una fatica quotidiana nel coltivarli si è provocato un danno enorme e noi lo notiamo ogni giorno. L’incipit di tutti i discorsi più razzisti che vengono fatti in Italia cominciano con la frase “Io non sono razzista”. Non bisogna vergognarsi di avere paura dell’altro ma esistono degli strumenti culturali e delle acquisizioni storiche ed economiche che ci fanno capire che l’altro conviene».
Mafia e monopolio dell’informazione. Com’è la situazione in Sardegna e che parallelismi ci sono con la Sicilia?
«C’è una battuta feroce che circola da noi. Pino Arlacchi, che ha insegnato all’università di Sassari, ha scritto un libro dal titolo Perché non c’è la mafia in Sardegna. La risposta che viene data è che non siamo nemmeno capaci di organizzare la criminalità perché c’è un’idea molto individualista delle cose. La differenza è che la nostra Isola ha meno di un un terzo degli abitanti della Sicilia. Ci sono anche meno interessi ma nonostante questo esistono delle infiltrazioni dove ci sono i soldi. Per quanto riguarda l’informazione c’è una divisione territoriale tra due quotidiani tradizionali che ricordano un po’ Catania e Palermo con La Sicilia e Il Giornale di Sicilia. Abbiamo la Nuova Sardegna e l’Unione Sarda. Il primo del gruppo l’Espresso mentre il secondo è da circa 15 anni in mano a un editore immobiliarista massone che si chiama Sergio Zuncheddu. Ne ho scritto su Repubblica e, per questo motivo, il mio nome su l’Unione Sarda non compare, c’è l’editto Zuncheddu che impone che io non debba essere ripreso».
I giornali online hanno scombinato davvero i piani?
«Oggi il potere e l’influenza dei quotidiani cartacei progressivamente decresce. Quindi, la vostra esperienza lo dimostra, ci sono più spazi per fare informazione. Il problema sono le risorse. Parliamo di soldi che per alcune realtà imprenditoriali sono bazzecole. Ad alcuni imprenditori basterebbe destinare all’informazione una parte del denaro che spendono per coltivare i loro hobby. Basterebbe questo, con il sostegno di piccoli interventi pubblici, per creare delle realtà serie. L’unica soluzione è fare il più possibile rete e coinvolgere i lettori. Creare una base forte per avere un terreno da cui fare fiorire delle belle piante».