Intervista a Giancarlo Ruvolo, ex docente di Lettere del carcere giudiziario di Catania. La vita dei detenuti ed il loro rapporto con la formazione
Imparare…la lezione
“Si può capire la vita da detenuti solo se si va dentro!”. Con questa esclamazione ed un incoraggiamento a proseguire nell’attività giornalistica, Giancarlo Ruvolo, docente in pensione del carcere giudiziario di Catania, mi saluta dopo avermi raccontato la sua profonda esperienza lavorativa.
Catanese di nascita, ma abitante ad Acitrezza dal 1966, con una laurea in pedagogia ed una abilitazione in Scienze umane, ha insegnato Lettere dal 1964 al 1994 nelle carceri giudiziarie di Catania, Caltagirone ed una breve esperienza nella scuola del penitenziario minorile di Acireale.
La sua attività si è rivolta ai detenuti in attesa di giudizio dell’età compresa tra i 24 e i 45 anni che dovevano conseguire la licenza elementare o media inferiore.
Dopo questa breve ma significativa presentazione, siamo passati ad un coinvolgente botta e risposta…
Professor Ruvolo, come possiamo definire il rapporto che si creava con i detenuti del carcere di Catania?
“Un ottimo rapporto. I detenuti seguivano le lezioni in modo spontaneo nella speranza di ottenere un lavoro dopo l’acquisizione della licenza elementare o media. C’è chi andava a fare il venditore ambulante o il manovale per le Ferrovie dello Stato. Gli alunni più bravi lavoravano al termine della loro pena nella cucina, nella biblioteca oppure come elettricisti o saldatori per l’istituto giudiziario.
Ogni classe era formata da un massimo di 15 allievi. Le aule venivano ricavate all’interno della stessa struttura. Per ogni aula c’era la presenza di una guardia penitenziaria. I libri e l’altro materiale per lo studio venivano forniti dal carcere o dalle scuole da cui provenivamo. Anche il Ministero dell’Istruzione ci forniva annualmente dei testi. Inoltre, la biblioteca carceraria veniva curata dal cappellano che riceveva i libri da terzi esterni alla struttura carceraria”.
Qual è a suo vedere il problema più grave allinterno del carcere in questo momento, e cosa si dovrebbe fare per migliorarlo?
“Il sovraffollamento. C’è il bisogno di strutture migliori. Nelle carceri come quello di Rebibbia a Roma, dove ho fatto un corso di aggiornamento, ogni detenuto aveva una propria cella. Oggi, rispetto al passato, le condizioni di vita dentro le celle sono sicuramente migliorate anche se ancora a Catania ci troviamo con doccie ed servizi igienici in comune. Ci sono solo poche stanze singole per un numero di detenuti troppo alto che si aggira intorno alle 400 unità”.
Gli operatori e le altre figure professionali del carcere giudiziario sono adeguatamente formati e aggiornati, secondo lei?
“Gli educatori sono importanti all’interno del carcere. Sono il tramite tra la famiglia ed il detenuto. L’insegnante offre la possibilità di riabilitazione in modo tale da non cadere nuovamente in reato.
L’aggiornamento ha una cadenza annuale con un corso di tre settimane. All’appuntamento si trovano docenti di pedagogia, criminologi, sociologi e psicologi. Tengo a ribadire l’importanza del ruolo dell’educatore che ha notevolmente migliorato la situazione attuale delle carceri. C’è da dire che la funzione dell’agente di polizia penitenziaria è stata rivalutata. Infatti, oggi il titolo di studio minimo che viene richiesto agli agenti è il diploma se non addirittura la laurea.
A mio avviso, solo un 10% dei detenuti riesce a capire la gravità del reato commesso e l’importanza dell’espiare la pena. Una chiave importante in tutto ciò è l’ambiente. Per far sì che il carcerato cambi vita, c’è la necessità di abbandonare il precedente ambiente in cui viveva”.
Cosa viene concretamente fatto nelle carceri per favorire il reinserimento dei ragazzi nel contesto sociale in cui vivono?
“Si punta molto sulla scuola ed il lavoro. Si effettuano corsi con didattica differenziale che abbracciano materie come la psicologia e la sociologia. Cerchiamo di far capire la struttura sociale italiana attraverso il rapporto umano. Con il dialogo e la dimostrazione di fiducia si aiutano i detenuti a superare anche gli ostacoli più difficili. Sicuramente con la coercizione non si ottiene alcunché”.
In che cosa si differenziano oggi i problemi di ragazzi italiani e stranieri detenuti?
“Beh il boom dei detenuti stranieri si è avuto da un decennio a questa parte a causa degli sbarchi di cui noi tutti siamo a conoscenza. Durante la mia carriera non ho avuto l’occasione di affrontare questo problema”.
Cosa può dirmi per quanto riguarda il mondo femminile?
“Non c’è un rapporto all’interno dell’istituto giudiziario tra donne e uomini detenuti. Ogni sesso ha la sua sezione carceraria. Questo vale anche per l’insegnamento anche se devo dire che da circa 15 anni c’è stata l’unificazione che ha portato insegnanti di entrambi i sessi ad insegnare per detenuti maschi o femmine. Anche gli agenti di polizia sono donne per la sezione femminile del carcere”.
Quali programmi e attività risocializzanti e ricreative vengono sviluppate nel carcere di Catania?
“Il teatro su tutti ma c’è da sottolineare l’impossibilità di svolgere attività ricreative in quanto molti detenuti scontano la pena negli istituti giudiziari per brevi periodi prima di passare al carcere penale e non hanno il tempo materiale per poter organizzare qualche iniziativa.
Per il resto posso aggiungere che i docenti, gli educatori e ovviamente i detenuti sono coinvolti nella realizzazione di opere teatrali. Le commedie vanno per la maggiore. Qualche volta mi sono cimentato anch’io nell’impresa artistica e devo dire che mi sono divertito tanto ed ho avuto modo di approfondire ulteriormente il rapporto di fiducia e collaborazione con i detenuti. Oltre al teatro vengono organizzate delle serate con la proiezione di film nella sala adibita agli spettacoli cinematografici”.
Ma davvero cè unemergenza legata al sovraffollamento o sono solamente falsi allarmi amplificati dagli organi di informazione?
“Secondo me il sovraffollamento esiste. C’è la necessità di nuove strutture carcerarie, con stanze singole e impianti rieducativi. Probabilmente la difficoltà principale è data dalla mancanza di fondi da parte del Governo da investire in nuovi edifici penitenziari”.
Come vede il carcere del futuro?
“Non credo nelle strutture troppo grandi. Si dovrebbe avere un impianto di massimo 800 detenuti per dare la possibilità ai detenuti di vivere la pena in maniera dignitosa da un punto di vista fisico ed igienico. Secondo il mio parere, una struttura immensa è poco controllabile. Bisognerebbe dare ai detenuti la possibilità di reinserirli con maggiore facilità nella società una volta espiata la pena”.
Cosa ne pensa dei detenuti del carcere di Saluzzo, in Piemonte, che hanno organizzato un telegiornale allinterno della struttura carceraria?
“Un’ottima iniziativa. Questo dimostra che i detenuti sono capaci ed intelligenti. E di questo ne ho prova in quanto mi è capitato diverse volte di avere di fronte persone che si avviavano all’ottenimento di una laurea. Molti si intendono di informatica o materie scientifiche.
Se il carcere riuscisse a mettere i detenuti sulla retta via, si riuscirebbe a migliorare la società. Questo tipo di attività sicuramente porta i carcerati verso l’inserimento nella società e non nuovamente verso il crimine. Purtroppo oggi molti detenuti acquisiscono conoscenze per rivolgerli al crimine ma l’iniziativa dei detenuti piemontesi è un esempio di come un uso corretto degli strumenti tecnologici che si hanno a disposizione possa cambiare il modo di pensare di molti carcerati”.