Al seminario L'immigrazione che verrà, organizzato dal gruppo di magistrati Area lo scorso weekend a Catania, a tenere banco nell'ultima sessione è il vivace confronto tra Mario Morcone, capo del Dipartimento per l’immigrazione del Ministero dell’interno e l’ordinaria di diritto dell’Unione europea di Unict
Immigrazione, l’Italia paese dell’accoglienza? Il prefetto Morcone difende le scelte del ministero
«Come fa a dire che in Italia l’accoglienza è a rischio di ‘trattamenti inumani e degradanti’?», attacca Mario Morcone. «Sono cose che le Corti internazionali dicono da dieci anni», replica seccamente Nicoletta Parisi. All’ultima sessione del tavolo l’Immigrazione che verrà – seminario tenutosi a Palazzo Platamone il 20 e il 21 febbraio, organizzato da Magistratura Democratica e Movimento per la Giustizia-art.3, che compongono il gruppo Area – a tenere banco è il confronto tra il prefetto e capo del Dipartimento per l’immigrazione del Ministero dell’interno e l’ordinaria di diritto dell’Unione europea dell’Università di Catania. La quarta e ultima sessione di lavori si intitola «Verso un nuovo approccio europeo», ha come tema la normativa dell’Unione in materia di protezione internazionale e i suoi effetti nella realtà.
L’intervento di Parisi offre un quadro delle fonti della giurisprudenza europea, individuando soprattutto casi di conflitto: come «la direttiva 115 del 2008, che vieta i respingimenti verso Paesi in cui sono a rischio i diritti fondamentali, ma è in contrasto con l’articolo 32 della Convenzione di Ginevra, pilastro dell’accoglienza in Europa, che li ammette in alcuni casi». Non mancano le critiche a Dublino III, il regolamento dell’Unione in materia di diritto d’asilo, che «applica il principio del mutuo riconoscimento in tutti gli Stati membri solo in caso di decisione negativa».
A proposito della situazione italiana, «una situazione di accoglienza molto civile» è quella che il prefetto Morcone ha avuto modo di riscontrare al Cara di Mineo visitato durante la pausa pranzo dei lavori, descrizione in contrasto con «la durezza delle Corti internazionali» evocata dalla docente. Un riferimento è alla recente sentenza Tarakhel, con cui la Corte europea dei diritti umani ha vietato il rinvio di una famiglia afgana in Italia, poiché il nostro Paese non assicurerebbe standard adeguati ai richiedenti asilo.
Invece per il prefetto, le garanzie in Italia sarebbero addirittura maggiori: «Il nostro è l’unico Paese dell’Unione ad avere istituito una commissione di inchiesta sul sistema di accoglienza e di identificazione dei migranti, e i dati del Ministero dell’interno rivelano percentuali di accoglienza più alte che nel resto d’Europa». Morcone ricorda l’impegno italiano a fianco della Germania nel processo di Khartoum, e pur dichiarandosi «europeista convinto», ammette di non aver capito «cosa stia facendo l’Europa in materia di accoglienza».
Gli risponde l’europarlamentare Michela Giuffrida, che ci tiene a precisare come «la linea del Parlamento non coincide con quella della Commissione». A tal proposito, la deputata del Pd ricorda l’interrogazione presentata alla commissaria Cecilia Malmström sul sostegno all’accoglienza in Italia. Un sostegno che adesso si arricchisce di 13 milioni per l’emergenza sbarchi: «Va detto che non siamo stati virtuosi nel gestire le risorse Ue», ammette l’europarlamentare. Due le proposte del Parlamento: la creazione di «un’agenzia per i richiedenti asilo che operi anche fuori dall’Unione in collaborazione con l’UNHCR» da una parte, e «un sistema solidale di accoglienza per quote», che si occupi della ricollocazione dei richiedenti asilo sulla base degli indici di occupazione e di ricchezza dei singoli Stati. Tenendo conto anche della «mancata coincidenza tra i Paesi di primo approdo e i quelli a cui i migranti aspirano».
«Gestione comune delle frontiere dopo l’abolizione delle frontiere interne all’area Schengen» è invece la linea di Giulio De Blasi, funzionario della Commissione europea. «Occorre farla finita con le promesse irrealizzabili – avverte – la Commissione non può gestire i flussi a nome dell’Unione». Il problema riguarderebbe soprattutto gli strumenti: «Occorre programmare in maniera seria, 900 miliardi in sette anni rappresentano appena l’1 per cento del Pil europeo».