Il teologo e il tempo per morire

 

Per il teologo Hans Küng (nel video in uno spezzone dell’intervista di Lucia Annunziata) essere credenti e scegliere quando e come morire non sono nozioni in contraddizione tra loro, proprio in nome della libertà e responsabilità di coscienza che Dio ha dato all’uomo. Il teologo svizzero, che già dal 1970 mise apertamente in discussione l’infallibilità del Papa, sostiene che lo stesso Gesù non ha mai considerato il dolore e la malattia come prove a cui Dio sottoporrebbe l’uomo e che quest’ultimo dovrebbe affrontare con rassegnazione. Aderire alla parola di Gesù non significa “seguire un’etica fatta di semplici divieti e di pure sanzioni” bensì compiere “la scelta di una vita eticamente responsabile dall’inizio fino alla sua fine”.
 
Citando l’Ecclesiaste egli scrive: «C’è un tempo per nascere e un tempo per morire». Il tempo per morire è determinato dalla mancanza di speranza di continuare a vivere nella dignità umana. Nessuno può essere spinto alla morte, ma neanche costretto alla vita. La decisione è in mano alla persona colpita e sofferente. Da qui la necessità di considerare seriamente la funzione del «testamento biologico», che non è la richiesta di essere soppressi, ma esprime la volontà di ricevere un trattamento volto al rispetto della propria morte, nel rifiuto di ogni intervento per il mantenimento di una sopravvivenza puramente biologica quando le nostre facoltà di intendere e di volere non saranno più operanti».
 
Scorrendo i saggi che compongono questo libretto è interessante notare come il pensiero di Küng sull’argomento sia cambiato nel corso degli anni. Se, nella prima parte del libro, i concetti di eutanasia passiva ed attiva sono ancora tenuti distinti, nelle considerazioni finali scritte nel 2001 si ammette che “nella realtà non si separano così nettamente come nella terminologia astratta. La delimitazione legale tra ‘diretto e indiretto’, ‘volere e accettare’, ‘fare e tralasciare’ sfuma nell’oscurità della prassi”. Il mutamento di prospettiva si deve soprattutto ai progressi compiuti dalla medicina e al conseguente rischio che la tecnologia renda l’uomo prigioniero di una vita che non gli appartiene. 

Sarebbe dunque necessario un atto di coraggio intellettuale da parte dei legislatori che devono adattare le leggi ai nuovi dilemmi che l’evoluzione della scienza propone. Affinché non si cada nel summum ius, summa iniuria: il massimo rispetto delle leggi e la massima ingiustizia.


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