Il siracusano che ha conquistato la vetta del Kilimangiaro Vinti il gelo e salite impossibili «per realizzare un sogno»

Ama viaggiare per il mondo, ha già visitato circa 50 nazioni e, se a questi si aggiunge anche la passione per la montagna, che coltiva sin dall’adolescenza trascorsa negli scout, il mix si fa esuberante. A sentire le prima battute della presentazione che dà di sé Guglielmo Venticinque, ingegnere 42enne siracusano e proprietario di un’agenzia marittima, si avverte sin da subito curiosità, ma anche la consapevolezza di trovarsi davanti a uno a cui piacciono le sfide impossibili. L’amore per la montagna lo ha portato fino in Tanzania (in Africa orientale) a scalare il Kilimangiaro, arrivando fino in cima. A quota 5.895 metri del gigante vulcano spento. E se di giganti si parla, Venticinque sembra non essere da meno: a lui basta alzare lo sguardo e salire fino a dove latita l’ossigeno. A formarlo come domatore di vette e salite è stato anche il trekking che pratica da anni. Non ne fa un vanto, ma liquida tutto come «una sfida verso me stesso e perché amo stare nella natura più selvaggia, poi è anche un modo per evadere dallo stress lavorativo quotidiano», racconta al telefono a MeridioNews mentre si trova in un albergo a Moshi Town (in Tanzania).

Poco importa se al momento soffre un po’ per un problema alle dita dei piedi dovuto a un inizio di congelamento. Per lui, che si è conquistato lo pseudonimo di Gulli – nato dalla fantasia di chi ha giocato col suo nome accostandolo al protagonista del romanzo di Jonathan Swiff, quel Gulliver che varcava terre fantasiose e lontanissime – quest’ultima prova è stata una vera e propria impresa. Non che non lo sapesse già ma, una volta seduto, adesso può raccontarla e rendersi conto di quanto compiuto. «Sto bene – dice – sono solo un po’ stanco. Sono partito da Catania, ho attraversato Addis Abeba e poi sono arrivato qui. Tutto è cominciato lo scorso 29 luglio per poi concludersi il 4 agosto». L’avventura verso gli oltre 5mila metri è iniziata proprio da Moshi Town, accompagnato da cinque portatori d’altura locali, che definisce «dei supereroi», portando con sé tutta l’attrezzatura personale per il trekking e per la scalata, oltre ai viveri e al necessario per poter pernottare o riposarsi: tende, stoviglie, acqua, mangiare. Questi ultimi, però, sono stati trasportati dai portatori. Tutto fornito da una società americana specializzata nel settore. 

«Per questo – ci tiene a precisare – Non si parla di alpinismo, ma di trekking d’alta quota: per arrivare non si utilizzano corde fisse. La difficoltà di questa impresa risiede nella scelta di portare con me i 20 chili di attrezzatura personale alla quota degli aerei di linea con il 50 per cento di ossigeno e temperature al di sotto dei 10 gradi e raffiche di vento da 40 nodi». Ma c’è un secondo ostacolo che aumenta non di poco la difficoltà: «Per arrivare in vetta devi attraversare il Parco nazionale che inizia a quota 1900 metri passando dalla foresta pluviale». Per arrivare fino in cima, Gulli e i portatori hanno montato quattro campi, con tende e tutte gli accessori necessari. Il primo a 3000 metri fino all’ultimo campo a quota 4760 circa. Da qui fino alla vetta finale ha impiegato sette ore. «Scalare il Kilimangiaro è un sogno che avevo da bambino – continua Venticinque – Amo la forma della montagna: è una vetta isolata da foreste pluviali. Amo lo stile di salita alla vetta in carovana africana, con portatori d’altura che cantano e tutti insieme procediamo per un solo obiettivo. Il trekking di avvicinamento – aggiunge – è meraviglioso: sei dentro la foresta pluviale con la pioggerellina perenne che ti bagna le ossa».

Scenari, quelli africani, che cambiano continuamente, con la temperatura che si abbassa accompagnata da venti gelidi. «Oltre a mancare l’ossigeno, ho avuto nausea, vomito e la sensazione di avere nello zaino un sacco di cemento – osserva – Tutto diventa difficile, anche andare in bagno, non riesci ad avere il pieno controllo di te stesso. Dopo cinque giorni di cammino e 3000 metri di salita c’è il giorno della vetta, con le 17 ore consecutive di attività fisica e la mente e il corpo che ti urla di tornare a casa, in Sicilia, al caldo». Tutto il percorso è stato fatto insieme ai portatori locali con delle direttive e consigli dati esclusivamente in inglese. Una prova da cuore oltre l’ostacolo che per Venticinque assume un significato particolare se, ascoltando i suoi trascorsi, si tiene conto di alcune complicazioni alla salute avute negli anni scorsi. 

«Lo scorso anno, dopo il Covid, avevo dolori pazzeschi – ricorda – Tutti mi dicevano di fermarmi: inoltre, una risonanza magnetica diceva che avevo due protusioni lombari e una dorsale. Mi sono allenato duramente e devo dire grazie all’amico e professionista Dario Pennisi, con cui ho lavorato sui miei problemi di schiena per poi iniziare una preparazione atletica. In un anno ho perso circa dieci chili e mi sono sentito davvero pronto». Tra le imprese già compiute da Gulli ci sono quella del monte Whitney, oltre 4000 metri in Sierra Nevada; il Kala Patthar, in Nepal, dal quale è possibile vedere l’Everest. Prossimo obiettivo previsto sempre in Nepal, per superare gli oltre 6000 metri dell‘Ama Dablam. Obiettivo ancora lontano ma che sarebbe un altro sogno da realizzare è quello dell’Aconcagua, sempre oltre i 6000 metri, in Argentina. Adesso è pronto per un’altra settimana da trascorrere in Tanzania. «Per un safari in Jeep e tenda», conclude.


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