Si è concluso con undici condanne il secondo troncone del processo nato dall’inchiesta Security, che nel 2017 ha posto all’attenzione delle cronache giudiziarie i rapporti tra professionisti, titolari di società attive nel settore della logistica e della sicurezza ed esponenti del clan Laudani. Relazioni che si sarebbero manifestate sotto forma di affari sia al Nord Italia che in Sicilia, toccando anche realtà come alcuni punti vendita Lidl– la società è rimasta estranea all’indagine – e il tribunale di Milano.
Martedì scorso, i giudici della sesta sezione penale milanese si sono pronunciati sugli imputati per i quali il processo è stato svolto con rito ordinario. Alcuni di loro, finiti in carcere a maggio 2017, erano stati giudicati già a novembre scorso nel procedimento con giudizio immediato. I loro nomi, tuttavia, compaiono in entrambi i processi, in quanto le posizioni sono state esaminate separando i capi d’accusa: prima quelli che hanno portato all’arresto, poi gli altri. Tra loro Luigi Alecci, 61enne paternese, già in passato condannato per omicidio e occultamento di cadavere: all’uomo sono stati dati sette anni e cinque mesi, dopo che a novembre i giudici della settima sezione lo hanno condannato a sedici anni e quattro mesi.
Alecci sarebbe stato al vertice dell’associazione criminale insieme a Emanuele Micelotta – calabrese di nascita – e Giacomo Politi, 42enne originario di Acireale. Entrambi sono stati giudicati sia a novembre che nei giorni scorsi, con condanne identiche: sette anni a novembre, quattro anni e sette mesi nei giorni scorsi. Ad avere un ruolo sarebbero stati anche i fratelli Nicola e Alessandro Fazio: il primo è stato giudicato in entrambi i processi, ricevendo la condanna a cinque anni e mezzo e a un anno e otto mesi, il secondo invece soltanto a novembre, quando i giudici hanno deciso per una pena di otto anni di reclusione.
Sarebbero queste cinque figure a costruire i business di cui avrebbero beneficiato anche i Laudani, sotto forma di dazioni di denaro in cambio di facilitazioni e protezioni. Il sistema che avrebbe favorito la cosca dei mussi di ficurinia si sarebbe retto, secondo l’accusa, anche sulla compiacenza di alcuni commercianti che si sarebbero prestati a emettere fatture false, da cui poi le imprese, che ruotavano attorno alle due principali società – la Sicilog e la Securpolice -, avrebbero creato fondi neri con cui foraggiare il clan, anche nel periodo successivo all’operazione Vicerè che, nel 2016, portò dietro le sbarre 109 persone ritenute legate ai Laudani.
A riguardo i giudici del secondo processo hanno accolto in parte le tesi dell’accusa: è il caso, per esempio, dell’acese originario di Biancavilla Vincenzo Greco, accusato di avere emesso tre fatture false per agevolare l’associazione a delinquere formata da Politi e soci e, di conseguenza, il clan Laudani. La corte d’assise ha riconosciuto per lui, ma anche per il titolare del ristorante Lo Scalo di Acireale Rosario Spoto, la responsabilità dei reati tributari, condannandolo a un anno e otto mesi, ma ha escluso l’aggravante mafiosa e lo ha assolto dall’accusa di associazione a delinquere. Greco, che è difeso dall’avvocato Enzo Di Mauro, era stato già assolto davanti al tribunale di Catania dall’accusa di concorso esterno all’associazione mafiosa in un processo che si è svolto con rito abbreviato.
Il 63enne è solo uno degli indagati la cui posizione è finita anche al vaglio dei giudici etnei. A piazza Verga, infatti, è ancora aperto il processo di primo grado – di fatto il terzo scaturito da Security – per associazione mafiosa e concorso esterno, che vede più imputati. Tra loro Enrico Borzì, 46enne acese, che dopo essere stato condannato in abbreviato a Catania per concorso esterno, è stato ritenuto colpevole anche dai giudici meneghini, che martedì gli hanno dato cinque anni e otto mesi.
Borzì è ritenuto braccio destro – oltre che dipendente – di Orazio Salvatore Di Mauro, detto Turi u biondu e considerato referente dei mussi nell’Acese fino al suo arresto, a metà febbraio 2016, nell’operazione Vicerè. Di Mauro è parente acquisito della famiglia di sangue dei Laudani, per avere sposato la nipote del patriarca ormai defunto, Sebastiano. Condannato a novembre nel processo milanese a otto anni e mezzo e in attesa di giudizio a Catania, l’uomo finì in manette poco dopo essere atterrato a Fontanarossa. L’aereo su cui aveva viaggiato era partito da Milano. Nel capoluogo lombardo, Di Mauro, secondo gli inquirenti, era andato per rinsaldare i rapporti con quegli imprenditori che, dopo avere fatto fortuna al Nord, erano riusciti a farsi largo anche in Sicilia, la terra da cui erano precedentemente partiti. Il tutto – e questa sarà la tesi al centro anche nel processo d’appello – con il benestare e l’interesse dei Laudani.
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