Il paradosso della discarica Cisma di Melilli sotto sequestro Regione non risponde su autorizzazioni, via metà dipendenti

«Perdere il lavoro senza un vero motivo fa tanta rabbia». Daniele Materia è uno dei 41 dipendenti che hanno ricevuto la lettera di avvio della procedura di licenziamento collettivo da parte della Cisma di Melilli, la società che gestisce la discarica di rifiuti pericolosi nel Comune siracusano finita sotto sequestro nel marzo del 2017, perché i proprietari – Antonino e Carmelo Paratore – sono accusati di essere affiliati al clan Santapola di Catania e di aver ottenuto l’ampliamento della discarica grazie a una fitta rete di corruzione che arrivava dentro le stanze della Regione. 

«Eravamo 120 dipendenti, ora siamo 81 perché molti contratti a termine non sono stati rinnovati, e adesso la metà rischia di restare a casa», sintetizza il lavoratore. Eppure il lavoro ci sarebbe, gli impianti pure. A mancare sono le risposte da parte della Regione siciliana che, sollecitata dagli amministratori giudiziari, da oltre tre mesi incredibilmente rimane in silenzio. 

Il sito di Melilli ha una doppia struttura: un impianto per il trattamento dei rifiuti pericolosi (unico in Sicilia, l’alternativa più vicina è a Crotone, di proprietà dei Vrenna, gli stessi che possiedono la squadra di calcio della città) e la discarica dove abbancarli. Il primo non ha mai smesso di funzionare, la seconda invece è chiusa. «Quando arrivano i rifiuti pericolosi – spiega Luciano Modica, attuale presidente del consiglio di amministrazione della Cisma – li stabilizziamo ma poi non possiamo usare la discarica, quindi ci tocca spedirli altrove. Viaggi di centinaia di chilometri che sono diventati antieconomici». Altra spesa che la società in amministrazione giudiziaria deve affrontare è quella dello smaltimento del percolato. Perché la discarica non è utilizzata, ma non è neanche tappata, visto che sui 500mila metri cubi di capacità, solo 100mila sono stati finora riempiti. Di conseguenza, com’è fisiologico, continua a produrre percolato che va smaltito secondo i criteri di legge. «Nel 2017 abbiamo registrato una perdita di due milioni e mezzo di euro – continua Modica – soltanto per garantire la sicurezza ambientale spendiamo 250-300mila euro al mese. Soldi che non avremmo problemi a sostenere se riuscissimo a lavorare a pieno regime, invece ci tocca fare debiti che, essendo l’impianto sotto sequestro, sono debiti dello Stato, cioè di tutti noi». 

Eccolo il paradosso: i rifiuti speciali provenienti dai siti industriali non mancano, 81 lavoratori aspettano con ansia le commesse, ma rimane tutto fermo. Quando gli amministratori giudiziari si sono insediati la linea tracciata era chiara: «Per prima cosa – precisava l’avvocato Francesco Carpinato – dobbiamo capire se siamo davanti solo a irregolarità nel procedimento delle autorizzazioni o se il sito è proprio incompatibile. Se la discarica recupererà i requisiti tecnici, amministrativi e ambientali andrà avanti, altrimenti no». I professionisti messi là dal tribunale gli accertamenti li hanno fatti, hanno chiamato i periti e, sottolinea il presidente del cda, «abbiamo constatato che il sito, nonostante tutte le vicende processuali relative alle autorizzazioni, è valido dal punto di vista costruttivo». Quindi sono passati alla fase successiva: chiedere alla Regione se fosse necessaria una Valutazione di impatto ambientale (che i Paratore sarebbero riusciti a evitare corrompendo i funzionari regionali). 

«La legge del luglio del 2017 che ha modificato il testo unico ambientale – spiega Modica – dà la possibilità di ottenere un’autorizzazione provvisoria e in contemporanea chiedere alla Regione un parere sulla necessità della Via. Abbiamo studiato e ci è sembrata un’occasione perfetta per la Cisma, così a marzo del 2018 abbiamo avanzato richiesta. Nessuna risposta, nonostante la legge impone alla Regione 30 giorni di tempo per farlo». Alla base del silenzio ci sarebbe un rimpallo di responsabilità tra l’assessorato Territorio e Ambiente, responsabile del procedimento Via, e l’Arpa di Siracusa. Il primo chiede alla seconda di dare un parere su eventuali rischi ambientali, l’Arpa avrebbe risposto di non essere titolata a esprimersi in via preventiva. 

Così l’impresa in mano allo Stato ha finito per essere costretta ad avviare il licenziamento collettivo di metà dei dipendenti. E altri 13 lavoreranno a orario ridotto. I lavoratori hanno avviato lo stato di agitazione. «Dovevamo farlo anche prima – allarga le braccia Daniele Materia – ma avevamo fiducia nelle istituzioni». «Non abbiamo più risorse – conclude Modica – noi siamo pronti ad avviare l’iter per la Valutazione di impatto ambientale, ma qualcuno ci deve dire se è necessaria o meno». In caso contrario Cisma rischia di morire. E qualcuno finirà per dire che un’altra impresa nelle mani dello Stato non ha funzionato.


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