Iblis, continua la lunga requisitoria dei pm «Scinardo, imprenditore organico alla mafia»

Sotto accusa l’intera gerarchia criminale etnea. È così che i pubblici ministeri Agata Santonocito e Antonino Fanara vedono il processo Iblis, una lunga e corposa indagine ormai alle sue battute finali. Tra polemiche e alterne vicende che ieri hanno visto segnare un punto da parte dell’accusa, con una discussione concreta, ordinata e ascoltata dall’aula con poco umorismo. Alla seconda udienza dedicata alla requisitoria dei pm, i magistrati hanno cominciato ad analizzare una per una le figure dei 23 imputati e le prove a loro carico. Non prima però di aver tracciato un quadro generale dei loro presunti ruoli in Cosa nostra etnea.

A cominciare da quelli che i magistrati considerano i rappresentanti della famiglia catanese: Giuseppe Ercolano, oggi defunto, e Vincenzo Santapaola, figlio del boss Nitto. La catena di comando sarebbe poi continuata con i reggenti operativi, tra cui l’imputato e presunto rappresentante provinciale Vincenzo Aiello. «Quella dei reggenti è una caratteristica di Cosa nostra catanese fin dagli anni ’90 – spiega Santonocito – Forse perché così si preservavano i componenti della famiglia dai problemi con gli altri clan e dalle indagini, come spiega il collaboratore di giustizia ed ex reggente Santo La Causa. E in effetti tutti i reggenti o sono morti o sono in carcere o hanno iniziato a collaborare».

Ma i vertici, spiegano i pm, potevano contare su gruppi di uomini secondo i settori di interesse. O addirittura per specifici lavori. Come gli imputati Mario Ercolano, Giovanni D’Urso e Francesco Marsiglione per la costruzione del centro commerciale La Tenutellaoggi Centro Sicilia. A loro si sarebbero aggiunti poi gli uomini della provincia, specie del Calatino, di cui «Aiello si assume la responsabilità totale dopo l’arresto di Franesco La Rocca», continua Santonocito. Non solo uomini d’onore, ma anche persone vicine all’organizzazione secondo la ricostruzione dei magistrati: Carmelo Finocchiaro, presunto braccio destro imprenditoriale di Aiello, Pasquale Oliva e Rosario Di Dio – insieme a Giovanni Buscemi e Massimo Oliva – a RamaccaAlfonso Fiammetta e Francesco Costanzo a PalagoniaTommaso Somma a Castel di Iudica. E ancora l’ex sindaco di Palagonia e deputato regionale Fausto Fagone e l’ex assessore di Ramacca Giuseppe Tomasello per quanto riguarda i contatti politici; gli imprenditori Mario Scinardo, Santo Massimino e Sandro Monaco per la parte imprenditoriale.

Questo il disegno a grandi linee dell’indagine in cui si muovono ancora altri imputati. Gli stessi che i magistrati dovranno presentare alla corte, uno per uno, nel corso delle prossime udienze. Come hanno già cominciato a fare con Tommaso Somma, «conosciuto persino da collaboratori di rilievo come Angelo Siino – racconta Santonocito – che lo descrive come un “mafioso d’altri tempi, da letteratura, con il compito di controllare i fondi ed evitare danneggiamenti”» nel territorio di Castel di Iudica. Membro importante della famiglia di Catania, sebbene non tra i suoi vertici, sarebbe invece Natale Ivan Filloramo, figlio di Anna Santapaola, sorella di Nitto. Strettamente legata alla sua posizione è poi, secondo i pm, quella del cognato e suo presunto braccio destro, Angelo Carbonaro.

Ma l’attenzione dei magistrati si concentra soprattutto sull’imprenditore Mario Scinardo. Originario di Capizzi, nel Messinese, si trasferisce a Militello Val di Catania dopo l’acquisto di diversi terreni utili all’attività di famiglia di allevatori di bestiame. Un lavoro che, racconta lo stesso imputato, lo ha portato fin dal 2000 ad avere frequenti contatti – ma leciti, sostiene Scinardo – con i Rampulla di Mistretta, Comune peloritano non lontano da Capizzi. «Sebastiano Rampulla, oggi deceduto, era il responsabile provinciale di Cosa nostra a Messina – ricorda il pm Fanara – Pietro è invece all’ergastolo per essere l’artificiere della strage di Capaci. Secondo i collaboratori, la famiglia Rampulla sarebbe stata fino ai primi anni ’90 sotto i Santapaola. Poi acquisì maggiori responsabilità con l’assenso dei La Rocca di Caltagirone».

Un’amicizia a cui Scinardo padre – sostiene il figlio imputato – si sarebbe rivolto nel caso di un furto di bestiame subito. Un rapporto talmente intimo che, fanno notare i magistrati, diverse volte i Rampulla e altri esponenti di Cosa nostra si sono incontrati nelle proprietà della famiglia Scinardo o a essa riconducibili. In uno di questi beni avrebbe persino trascorso la latitanza Umberto Di Fazio, ex reggente di Cosa nostra etnea e oggi collaboratore di giustizia che racconta ai magistrati di essersi fidato di Scinardo proprio su presentazione di Rampulla. «”È la stessa cosa che siamo noi“, gli disse – riporta il pm Fanara – Una formula che, secondo Santo La Causa e Giovanni Brusca, viene usata tra uomini d’onore per presentarne un terzo».

Un elemento che, in sistema con gli altri raccolti, per i magistrati basta a provare la sua colpevolezza. Nonostante qualche contraddizione nei racconti di Di Fazio che descrive Scinardo come un uomo «né basso né alto». L’imprenditore, un omone alto e robusto, ascolta attento dal fondo dell’aula. Scuote il capo a ogni accusa, mentre il pm continua: «Socio in affari di Vito Nicastri, accusato di essere vicino al boss trapanese Matteo Messina Denaro, è stato anche ritrovato un pizzino dei Lo Piccolo di Palermo che ordinava di continuare a lavorare con lui».


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