«I guai del giornalismo? Sono colpa nostra»

«Il buon giornalismo dipende dai buoni giornalisti. Se in Italia la stampa è corporativa e non libera la colpa è per l’80% nostra». Franco Fracassi, giornalista conosciuto soprattutto grazie a “Zero“, film inchiesta che ha messo in crisi la versione ufficiale sugli attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, è fermamente convinto che i giornalisti dovrebbero essere più consapevoli dei meccanismi della creazione di notizie, un requisito fondamentale per svolgere al meglio il loro “mestiere”. Ospite de “Il Clandestino” nel Festival del Giornalismo di Modica , all’interno del quale ha tenuto un workshop di 4 giorni sul giornalismo d’inchiesta, ha dato alcuni consigli preziosi agli aspiranti “giornalisti d’inchiesta”: un mestiere che «è possibilissimo fare ovunque, ma è molto difficile».

Si può fare buon giornalismo d’inchiesta anche in Sicilia quindi?
«Sì. Il buon giornalismo dipende dalle singole persone che fanno questo mestiere. Dopo naturalmente, il lavoro deve essere aiutato e supportato dall’ambiente e dai veicoli di distribuzione, cioè i giornali, le case di produzione di documentari d’inchiesta e le case di produzione televisive. Sono supporti importanti, ma non strettamente necessari in quanto si possono trovare strade alternative per far arrivare la propria inchiesta ai cittadini e distribuirla. Più della metà delle responsabilità di una buona inchiesta dipende quindi da chi l’inchiesta la fa».

Si parla spesso nelle inchieste di grandi industrie, grandi enti pubblici, ma non sembra che ci siano grosse inchieste sull’Informazione e “l’industria” che ci sta dietro. Sarebbe utile fare un’inchiesta su questo?
«Sarebbe utilissimo, ma ci sono già inchieste sull’informazione. Un esempio è il bellissimo documentario che si chiama “Outfoxed“, sulla Fox, uno dei principali network televisivi del mondo. Questo documentario in Italia è stato boicottato in tutti i modi, non è mai arrivato. All’estero ci sono tanti esempi, ma in Italia purtroppo sono molto pochi, perché il nostro è un Paese di “Clan”, corporativo».

In che senso “corporativo”?
«Nel senso che c’è un sistema medievale, con corporazioni che impediscono l’entrata di nuovi soggetti . Fanno quadrato intorno ai propri membri al di là delle eventuali responsabilità. Esiste un ordine dei giornalisti messo su in epoca fascista che è di tipo medievale. I giornalisti si chiudono dentro quest’ordine, si proteggono, è difficilissimo trovare un giornalista che parli male di altri giornalisti. Le “colpe” sullo stato della libertà di stampa in Italia si danno di solito a “qualcun altro”, ma credo che il 70-80% delle “colpe” siano dei giornalisti. In tutti i Paesi civili del mondo non esiste l’ordine dei giornalisti: i giornalisti sono quelli che scrivono, indipendentemente da una tessera».

Nella lezione di oggi ha detto che spesso i giornalisti non sono a conoscenza delle tecniche di newsmaking e news management, e questo fa sì che la nostra informazione non sia “libera”. Quanto può influire lo studio di queste tecniche nei giornalisti del futuro?
«Sarebbe utilissimo che i giornalisti conoscessero queste tecniche, per non dare per buone le notizie che vengono dagli uffici stampa dei ministeri, che spesso sono annacquate con informazioni inventate di sana pianta. Purtroppo accade sempre più spesso e in maniera molto più massiccia che i nostri giornalisti utilizzino queste informazioni. Del resto chi non sa cosa lo aspetta, chi non conosce l’avversario e i suoi metodi, come fa a opporsi? Se io non ho alcuna conoscenza dei proiettili andrò di fronte ad un uomo con la pistola convinto che con la mia scimitarra lo farò fuori. È quello che succede quotidianamente: il giornalismo viene ucciso giorno dopo giorno, con un danno per i cittadini e per la democrazia».

Quali sono le difficoltà principali che si incontrano per fare giornalismo d’inchiesta?
«In realtà sono le stesse che si hanno per fare il giornalista in qualunque settore: bisogna fare molti sacrifici iniziali; questo è un mestiere vero e proprio, al pari del ciabattino o dell’idraulico, e si deve investire il proprio tempo nella difficile pratica quotidiana. C’è da dire che di solito questa dura meno dei 3 o 4 anni dei corsi universitari, quindi è uno sforzo economico o di tempo inferiore a quello richiesto per diventare magari ingegnere o avvocato».

Per chi invece fa già inchiesta, quali sono le difficoltà?
«Riuscire a trovare degli spazi per far arrivare ai cittadini le inchieste, scritte o video che siano. È difficile trovare giornali che pubblichino le inchieste scritte; quando si trovano pagano molto poco e raramente si riesce a rientrare nelle spese. Per le inchieste video il discorso è più o meno simile, con l’aggravante che gli “spazi” sono ancora minori, e i costi sono molto più elevati».

I punti fondamentali per fare una buona inchiesta quali sono?
«Una buona inchiesta deve avere molte testimonianze dirette, il più possibile vicine all’evento o all’argomento che si vuole raccontare. Deve avere molta documentazione che suffraga le testimonianze. Deve essere raccontata bene. Non dev’essere partigiana, ma il più onesta possibile nei confronti del lettore o dello spettatore. Non deve fornire “predicozzi ideologici” che servono a imbonire lo spettatore o il lettore, ma deve semplicemente limitarsi a fornire le informazioni e far arrivare il lettore o lo spettatore alla conclusione, allo scopo dell’inchiesta, da solo. Una buona inchiesta deve non solo spiegare il fenomeno o l’evento di cui sta trattando in tutti i dettagli, ma anche i “perché” dell’argomento su cui si basa l’inchiesta. In più deve avere un giusto equilibrio tra la visione generale dell’argomento e le storie con cui l’argomento viene raccontato».

E per avere “successo”, cos’altro deve avere un’inchiesta?
«La forma con cui l’inchiesta viene presentata, scritta o video, è altrettanto importante della sostanza. Una cosa fatta bene fa in modo che un argomento pesante e complesso diventi divertente e appassionante, e quindi molto più efficace. Nel caso delle televisioni, chiaramente, crea più audience un’inchiesta con un buon ritmo di narrazione; quindi le televisioni hanno più interesse ad acquistare un’inchiesta formalmente ben fatta invece di una giornalisticamente “fatta bene”, ma noiosa».

Il Festival di Modica serve, nelle intenzioni degli organizzatori, a mettere in contatto varie realtà in un’ambiente, quello siciliano, in cui i quotidiani sono pochi, poco venduti e tutti legati a pochissimi imprenditori e gruppi politici, e non c’è praticamente nessuno spazio per il giornalismo d’inchiesta. Quali aspettative ha da questo workshop?
«Spero di insegnare qualcosa, di far venire quantomeno la curiosità a più persone possibile su questo settore del giornalismo, parlando a gente che poi si andrà a informare e a sviluppare questi concetti. E magari vorrei di trovare alcuni bravi giovani volenterosi che siano disposti a “sacrificarsi” per fare delle inchieste».

Ha un’inchiesta preferita, una che le fa dire “questo è il livello a cui voglio arrivare”?
«Ce ne sono molte, la mia “preferita” è il caso Watergate tirato fuori da Bob Woodward e Carl Bernstein. Oltre a loro, un mio modello di inchiestista è Seymour Hersh, che probabilmente è attualmente il più famoso giornalista di inchiesta; lavora per il New Yorker e ha vinto ben due volte il premio Pulitzer».

Un’inchiesta italiana preferita?
«Una in assoluto non mi viene in mente, ma mi piacciono molto le inchieste di Report, mi piace come lavora Riccardo Iacona. Anche Mixer faceva delle cose interessanti… Purtroppo non si fanno molte inchieste in Italia, non c’è una inchiesta che mi faccia dire “mannaggia questa inchiesta l’avrei voluta fare io”».

Il prossimo argomento quale sarà?
«Sono molte le cose su cui sto lavorando, probabilmente il prossimo film che uscirà sarà quello sulla guerra in Afghanistan. Ma io e le persone che collaborano con me stiamo lavorando a una decina di inchieste, molte di queste sono nella fase conclusiva».


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