I grani antichi tornano sui campi siciliani «Per anni li ho coltivati come marijuana»

Pensava di andarsene via e invece è rimasto in Sicilia, a curare la terra. Ma Giuseppe Li Rosi, imprenditore agricolo di Raddusa da tre generazioni, non è un semplice agricoltore che fornisce materie prime all’industria. È un coltivatore di grani antichi siciliani, patrimonio genetico appartenente alla biodiversità mediterranea e frutto della selezione fatta dai contadini in novemila anni di storia dell’agricoltura. E di quei grani fa anche prodotti finiti – farine, pasta e biscotti – «digeribili, pieni di sapore e odore», dice. Un’impresa non facile perché la loro coltivazione è stata abbandonata per decenni e soppiantata dai nuovi grani modificati geneticamente.

«Tutto inizia quando il grano è stato nanizzato perché c’era la necessità da parte dell’industria chimica di piazzare il nitrato di ammonio, residuo della seconda guerra mondiale», spiega Li Rosi che è anche presidente della Stazione sperimentale di granicoltura di Caltagirone, un centro di ricerca dove sono conservati 49 ecotipi di grani locali siciliani. «Cominciarono ad usarlo in agricoltura per la mutagenesi indotta, da cui nel 1974 nacque il creso, un grano mutato geneticamente che produceva il doppio di quello normale. Il pretesto – continua – era quello di risolvere il problema della fame del mondo, ma è chiaro che non ci sono riusciti». Ciò che hanno fatto, invece, per l’agricoltore siciliano è «togliere il diritto del seme al contadino, disseminare per il mondo grani sempre più iperproteici che il nostro intestino non riesce a digerire dando il via a tutte le intolleranze e le allergie». E infine hanno portato alla «disattivazione delle aziende agricole, perché il contadino è stato costretto ad acquistare dall’industria i prodotti chimici. Prima il nitrato di ammonio, poi i fosfati, per continuare con i diserbi e i fungicidi necessari per difendere le piante nanizzate, che hanno un sistema immunitario destabilizzato, dalle malerbe e dalle malattie».

Li Rosi ne è convinto: «Hanno tentato di cancellare i grani antichi dalla faccia della terra per poter vendere i semi su cui le ditte sementiere e le multinazionali hanno i loro diritti», spiega. Oggi, infatti, i contadini pagano le royalties, il diritto di proprietà, sui semi di grano, «mentre quelli delle varietà autoctone sono stati messi prima ai margini – racconta – poi nessuno li ha più coltivati e oggi addirittura uno scambio o una vendita tra contadini è un’azione illegale, perché non rientrano nella lista delle varietà commerciali e di quelle nel registro nazionale». Per questo, nella sua azienda di famiglia in contrada Pietrapesce tra la provincia di Catania e Enna, all’inizio ha dovuto coltivarli di nascosto. «Ho capito che se mi avessero scoperto mi avrebbero bloccato i contributi europei per l’azienda. Quindi per circa otto anni li ho seminati come se fossero marijuana», dichiara.

Da un paio d’anni li ha introdotti come semi aziendali e la produzione biologica gli permette di utilizzarli. La sua azienda agricola di 200 ettari è la più grande nella coltivazione di grani antichi in Sicilia e la seconda per grandezza e varietà in Italia. Vi coltiva quattro tipi di grano: il Timilia, lo Strazzavisazz, la varietà più antica di grano duro presente in Sicilia chiamato per questo anche settecentanni, il grano tenero Maiorca e il margherito o bidì dalle ottime caratteristiche panificatorie. Grani che producono il 50 per cento in meno rispetto alle varietà moderne – 20 quintali per ettaro invece di 40 o 50 – con un bassissimo indice di glutine e per questo digeribili. «Il paradosso è che un indice di glutine che non è digeribile è detto ottimo, mentre un frumento digeribile viene descritto con glutine scarso – afferma Li Rosi – L’indice di glutine alto velocizza il processo di pastificazione, perché il grano può essere sottoposto a temperature di essiccazione molto alte, quindi serve all’industria, ma il nostro intestino non lo riconosce e comincia a produrre radicali liberi che causano mali che vanno dalle allergie ai tumori. È il solito discorso del profitto a discapito della salute, fatto su un alimento che mangiamo giornalmente».

L’imprenditore di Raddusa invece pensa alla qualità, ma senza dimenticare il guadagno. «Spero di riuscire a guadagnare di più di un’azienda agricola normale perché vendo anche prodotti finiti», afferma. Il mercato per le farine, pasta e biscotti che da un anno e mezzo vende con il marchio Terre frumentarie è al Nord. «Il prezzo lo decido io e non Chicago, sede della borsa mondiale del grano a settemila chilometri di distanza», dice. Lo decide in base alle spese e offre un prodotto digeribile e che dà più energia perché «a differenza dei grani moderni abituati a ricevere il concime dall’alto, sono capaci di trovare micronutrienti nel terreno che vengono trasferiti nel prodotto finito», spiega. E a chi obietta che i prodotti biologici costano troppo e che sono di nicchia, lui risponde che pensa invece che siano per coloro che hanno preso coscienza.

Un chilo della sua pasta costa cinque euro. «Non è un prezzo esagerato – spiega – Lo pensiamo perché ci hanno abituati a spendere 90 centesimi per un chilo di pasta. Ma com’è fatta questa pasta?» , chiede retoricamente. «Comprandola non stai spendendo cinque volte di meno, ma buttando 90 centesimi per danneggiare la tua salute e quella dei tuoi figli. Con qualche euro in più, invece, sono sicuro di dare ai miei figli un prodotto genuino e salubre, e contribuisco alla biodiversità e a salvare le aziende agricole che sono la base della crescita delle nazioni».

«Il consumatore – suggerisce Li Rosi – dovrebbe porsi una domanda, che è la stessa che si facevano gli uomini primitivi quando andavano alla ricerca del cibo: cos’è buono e cos’è cattivo, cosa mi permette di proliferare e cosa invece mi toglie energia». Il problema per l’agricoltore è che questa domanda non ce la si fa più «perché siamo talmente bombardati dalla pubblicità che ci siamo convinti di avere tutto il cibo a disposizione». Eppure, dice, «nessuno mai metterebbe nafta o benzina sporca nella propria macchina, ce ne guardiamo tutti bene, perché invece non pensiamo a cosa introduciamo nel nostro corpo?». E dà la colpa all’ingegneria sociale «che ha tagliato il rapporto con le tradizioni convincendo per 150 anni la gente che il prodotto industriale è quello più salubre, asettico, sano, e addirittura di moda, portandoci a comprare il cibo con gli occhi chiusi. Mentre prima si guardavano le mani di chi ti vendeva il pane e se aveva le unghia nere non lo si comprava».

Per Giuseppe Li Rosi scegliere i grani antichi significa dedicare più tempo alla ricerca del cibo. Invece di fare la corsa con i carrelli. «Ai primordi l’uomo dedicava tutta la giornata alla ricerca del cibo e fino a 60 anni fa si impiegavano ore in cucina. Oggi lo vogliamo portato fino a casa», dice. Lui concorda con il filosofo Ludwig Feuerbach che pensava che siamo ciò che mangi. «Infatti – dice – il nostro cervello si attiva in presenza di elementi chimici. Molti microelementi non si trovano più nel ciao e molte aree del nostro cervello sono disattivate. Per evolverci dobbiamo cambiare modo di vivere, pensare e di nutrirci».


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Giuseppe Li Rosi è un imprenditore agricolo di Raddusa. Da otto anni coltiva grani autoctoni siciliani. Una coltivazione che è stata abbandonata e che rischiava di scomparire perché soppiantata dai nuovi grani modificati geneticamente. «È il risultato della ricerca del profitto a discapito della salute», dice l'agricoltore catanese che con la sua scommessa sui prodotti digeribili e pieni di sapore del frumento antico sfida le multinazionali

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