Giuseppe Di Matteo, 24 anni fa il suo omicidio «Conservarne il ricordo ci aiuta a restare umani»

«A 24 anni di distanza non si è spento, né mai si spegnerà il dovere di ricordare Giuseppe Di Matteo, vittima innocente di una barbarie inaccettabile. A 24 anni di distanza dal giorno del suo assassinio, preservare la memoria di quel bambino è un atto che ci aiuta a restare umani, a ricordare che a fare la differenza fra le persone è sempre e solo il rispetto per gli altri e per il bene inviolabile della vita». Con queste parole il sindaco Leoluca Orlando ha ricordato il piccolo Giuseppe Di Matteo, sequestrato il 23 novembre 1993 quando ha solo tredici anni da un maneggio di Altofonte. Muore, strangolato e poi sciolto nell’acido, poco prima di compierne quindici, l’11 gennaio 1996. I familiari, disperati, lo cercano in tutti gli ospedali, ma di lui non c’è traccia. Fino a quel messaggio recapitato con un biglietto lasciato sotto la porta di casa: «Tappaci la bocca».

Quel rapimento è una vendetta per convincere il padre Santino a non collaborare più con i magistrati e a ritrattare le sue dichiarazioni sulla strage di Capaci e sull’omicidio dell’esattore Ignazio Salvo. Santino Di Matteo non si piega però, continua la sua collaborazione con la giustizia. E resta sordo anche alle suppliche disperate della moglie, Francesca Castellese, sentita un anno fa anche al processo in corso a Caltanissetta sul depistaggio delle indagini per la strage di via D’Amelio, e sentita in precedenza anche durante il Borsellino quater. «Non fatemi ricordare…», aveva detto più volte ai giudici con voce supplichevole. «Lo hanno preso perché mio marito già collaborava», ha spiegato più volte nelle aule di giustizia in cui è stata convocata, «non so nemmeno di che fatti possa aver parlato coi magistrati – ha detto del marito -, io non capivo nulla, avevo il prosciutto negli occhi», sostenendo di non aver mai avuto alcun sentore che il marito, all’epoca, potesse far parte di Cosa nostra.

Il piccolo Di Matteo, divenuto un simbolo, non è però l’unico bambino ucciso da spietati boss. A riprova del fatto, se mai ce ne fosse stato bisogno, che non è mai esistito quel mito di una mafia che rispetta il dogma del non toccare ragazzini e donne, inventato del resto dalla mafia stessa. C’è, ad esempio, Claudio Domino, freddato con un colpo di pistola sulla fronte a soli undici anni mentre gioca sotto casa, per le vie della sua San Lorenzo, a pochi metri dalla cartolibreria della madre. Andando più indietro, addirittura fino alla strage di Portella della Ginestra quel primo maggio 1947, ci sono anche la piccola Vincenza La Fata di otto anni, e Giovanni Grifò e Giuseppe Di Maggio, che di anni ne hanno solo dodici e tredici. E poi c’è Serafino Lascari, che ne ha 15. Insieme ai diciottenni Giovanni Megne e Castrense Intravaia, e Vito Allotta che si spegne a 19 anni: è un massacro di giovani vite.

Solo un anno dopo, l’11 marzo 1948 ecco un altro nome, quello di Giuseppe Letizia, pastorello di Corleone ucciso a tredici anni. Aveva assistito all’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto, gettato dal luogotenente di Michele Navarra, capomafia di Corleone, nelle foibe di Roccabusambra, dove i suoi resti verranno ritrovati solo 61 anni dopo. E ancora i fratelli Antonino e Vincenzo Pecoraro, di nove e 19 anni, vittime innocenti della strage di Godrano del 26 ottobre ’59, crivellati dai fratelli Di Maggio travestiti da carabinieri. Il 26 luglio 1991 a morire invece è Andrea Savoca, che ha solo quattro anni, e che ha solo la sfortuna di essere seduto in auto accanto al papà, fedelissimo di Riina da poco scarcerato, che lo vuole portare in spiaggia. Trentadue anni prima era toccato a un’altra bambina con lo stesso cognome, Giuseppina Savoca, uccisa a dodici anni il 19 settembre 1959 da un proiettile vagante, che la raggiunge mentre gioca sotto casa in via Messina Marine. Sono più di cento i nomi come i loro


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