L'Italia degli eterni scontri tra Destra e Sinistra, il Sessantotto visto in tv, la rabbia degli ultimi e l'amore fraterno. Non c'è retorica nel nuovo film di Daniele Lucchetti, ma c'è Elio Germano, protagonista indiscusso.
Fratelli d’Italia – Mio fratello è figlio unico
Regia: Daniele Luchetti
Sceneggiatura: Stefano Rulli, Sandro Petraglia, Daniele Luchetti
Cast: Riccardo Scamarcio, Elio Germano, Angela Finocchiaro, Massimo Popolizio, Luca Zingaretti
Distribuito da WARNER BROS. ITALIA
“Mio fratello è figlio unico/Perché è convinto che Chinaglia/Non può passare al Frosinone/Perché è convinto che nell’amaro benedettino/Non sta il segreto della felicità/Perché è convinto che anche chi non legge Freud/Può vivere cent’anni/
Perché è convinto che esistono ancora gli sfruttati/Malpagati e frustrati/Mio fratello è figlio unico/Sfruttato represso calpestato odiato” cantava Rino Gaetano. E pare proprio che il testo del cantautore, più che “Il Fascicomunista” di Antonio Pennacchi (il libro da cui è dichiaratamente tratto il film), racchiuda la vera essenza dell’ultimo lungometraggio di Daniele Lucchetti. “Non si tratta di un film politico, ma di un film che parla di esseri umani che fanno politica”, si affretta a chiarire il regista, ma la potenza delle idee e la violenza degli scontri che scuotono l’Italia tra i primi anni Sessanta e gli anni Settanta sono il pane quotidiano di Accio e Marrico, i due fratelli di provincia (e precisamente di Latina, la Littoria dei nostalgici, che volente o neolente rimane piuttosto al margine dell’agitazione, lontana da Roma, da Torino, da Milano – “Il Sessantotto lo seguii dal soggiorno di casa, guardandolo in tv”, confessa Accio) che trovano nella rivalità politica (ex seminarista, fascista sin da ragazzino, poi comunista, ma sempre convinto dell’efficacia dell’idea con la I maiuscola, il primo; comunista incallito, fino a diventare terrorista, il secondo) un modo tutto loro di dimostrarsi affetto fraterno. Ed è, sì, il ritorno sul grande schermo di Riccardo Scamarcio (nei panni di Marrico) a poche settimane dall’uscita di quel sequel talmente osannato dai teenagers al botteghino che probabilmente è superfluo nominarlo, ma, a dispetto della locandina, che, che ci volete fare?, vede il bel pugliese dagli occhi verdi in primo piano, e a dispetto della tuta da operaio che Riccardo indossa quasi a lanciare una nuova moda, “Mio fratello è figlio unico” è fondamentalmente la storia di Accio Benassi, sia perché è la sceneggiatura a volere così (rispecchiando, in questo sì, la trama del libro), sia perché l’Elio Germano che Lucchetti ci mostra, telecamera a spalla, è oltremodo intenso, energico, credibile, sincero, ed ha negli occhi una speranza che non tramonta mai, neanche quando la vita e gli uomini non possono fare a meno di dimostrarti che le delusioni, se vuoi, sono sempre dietro l’angolo. È lui l’escluso, la pecora nera, il violento, l’alternativo. È su di lui che si può sempre contare nonostante tutto. È lui che ama, non esattamente ricambiato, ed è lui che soffre il distacco da quel fratello così diverso ma in fondo così vicino. È sempre lui a strapparci il sorriso, ed è di lui che, giunti ai titoli di coda, ci innamoriamo irrimediabilmente.
Non c’è retorica nelle inquadrature ristrette, nei primi piani, nel grigio dell’asfalto, nell’odore del mare, nelle canzoni anni Sessanta (“Ma che freddo fa” di Nada, “Chariot” di Betty Curtis, “Riderà” di Little Tony), nella disperazione di una madre sfortunata interpretata da Angela Finocchiaro, negli insegnamenti del fascista-mentore Luca Zingaretti, nelle pulsioni sessuali di Accio che lo conducono ad immensi sensi di colpa, né nella piccola grande rivoluzione che mette in atto per il riscatto della sua famiglia. Non c’è clemenza nei colpi di pistola dei poliziotti, così come non ce n’è nei pugni e nei calci di fascisti confusi e nelle cover di comunisti impacciati che tirano in ballo niente meno che Beethoven. Non c’è giustizia sociale in un’Italia eternamente spaccata in due, e non c’è spazio per l’amore dove non c’è spazio per un abbraccio fraterno. Questo Accio e Marrico (e Lucchetti con loro) lo sanno. Perciò dipingono un acquerello deciso ma sfumato. Credibile quanto basta. Con i colori della verità, del dolore, dell’espiazione.
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