«Basta il nome». E il cognome: quello di Vincenzo Romeo. Per fare sì che a Messina i criminali facciano un passo indietro e i colletti bianchi si mettano a disposizione. È il gip Salvatore Mastroeni a fotografare in tre parole il ruolo del nipote di Nitto Santapaola. Sarebbe lui, secondo la tesi della Procura accolta dal giudice per le indagini preliminari, a gestire gli affari della famiglia Santapaola nella città dello Stretto. E ad aver portato Cosa Nostra a un livello di modernità nuovo per Messina.
«Una mafia pulita, ricchissima e impunita, posta nel salotto bene della città – la descrive il gip -. I mezzi non sono più le armi, che pur ancora ci sono. Ma sono imprese, professionisti, soldi, sistemi paralegali per aggirare la legalità. Sono corruzione e una disponibilità generale ad avere strumenti e leve per appalti. Per la gestione del moderno e lucroso affare del gioco e delle scommesse. Per mantenere anche vecchie tradizioni locali, come le corse di cavalli».
Le radici affondano «nel mondo di sotto», in quella famiglia di cui in alcuni casi Vincenzo Romeo sente quasi il peso. Figlio di Concetta Santapaola, sorella dello storico capomafia catanese Nitto, e di Francesco Ciccio Romeo, condannato per mafia. Così lo descrive uno dei suoi fedelissimi, Stefano Barbera, che ne accoglie le confidenze: «Parla bene, educato, laureato pure… il suo sogno è quello ad un certo punto di vendere tutto ed andarsene via con la famiglia, perchè lui non sopporta che abbinano sempre il suo nome, dice “ho dei bambini piccoli… ogni volta”, dice, “il figlio di qua, il figlio di là, a me mi pesa questa cosa“».
Sarà anche per questa forma di complesso che Vincenzo Romeo coltiva l’ambizione di entrare a pieno titolo nel «mondo di sopra». E lo fa concretamente, circondandosi di contatti utili tra professionisti, forze dell’ordine, dirigenti comunali, colletti bianchi. È il nuovo sistema, in cui non si spara più, che sempre Barbera lucidamente analizza, senza sapere di essere intercettato. «Vogliono la pace e cercano sempre di fare affari agevolando aziende anche del Nord che vengono qua – dice dei Romeo -, hanno fatto arrivare Eurospin… Fanno, costruiscono, sistemano, cercano di fare attività, hanno eliminato del tutto il pizzo… il primo che chiede il pizzo lo ammazzano loro, perché, dice, “ci stiamo ravinando da soli”, addio pizzo. Sarà qualche clan a Palermo, ma qua non esiste più. Se chiamiamo pizzo il regalo su un appalto, chiamiamolo come vogllamo ma è esistito sempre».
Questo atteggiamento avrebbe addirittura fatto diventare Vincenzo Romeo punto di riferimento anche per singoli esponenti delle forze dell’ordine. Nelle 571 pagine dell’ordinanza si fa riferimento a un carabiniere del Ris, due finanzieri e un poliziotto che avrebbero intrattenuto rapporti con l’indagato, chiesto favori, assunzioni e interventi anche per riportare all’ordine piccoli criminali locali, colpevoli di furti.
Per creare questo sistema, però, Vincenzo Romeo si sarebbe avvalso della forza intimidatrice che deriva dalla famiglia catanese di appartenenza, con cui mantiene saldi legami. A dimostrarlo è anche l’aiuto economico che fornisce ai cugini Vincenzo e Cosima Palma Ercolano, dopo il sequestro della ditta di trasporti Geotrans, nel 2014. «Io – diceva il nipote di Nitto Santapaola – ogni mese ho troppo bordello,
ho troppa gente sulle spalle… vedi che ho un mare di spese, ora vedi mi ha chiamato mio cugino da
quella parte, mia cugina, gli devo mandare pure qualcosa di soldi… minchia ho un bordello». E non mancavano le critiche alla gestione del capomafia defunto, lo zio Pippo Ercolano. Soprattutto nel confronto col padre Ciccio Romeo, considerato più saggio e più prudente. «Quando la gente moriva di fame, lui – dice riferendosi a Pippo Ercolano – camminava con la Mercedes e due telefoni, scendeva l’autista e gli apriva lo sportello, ma che spacchio mi stai raccontando? Mio padre spuntava con quel pezzo di 127 con la quale ci si attacca il porco… tirava il freno a mano: “Carabinieriii”».
Sono invece parole di orgoglio quelle che Romeo riserva per la sua famiglia. «Magari – racconta parlando con un’amica – una che sente nomi, cose, uno si aspetta una famiglia di rugna a tipo per dire… Invece io l’ho vissute queste case, perchè da piccolino io ho vissuto più quei contesti che altri… a casa c’era il massimo silenzio, all’una si arrivava, tutti a tavola altrimenti non si mangiava, cioè se mancava qualcuno… Io giuro, i miei figli una parola di mio nonno, o dei miei zii che sono tutti ergastolani, mai “che cazzo dici”, “figlio di buttana”, queste parole mai, io mai ho sentito una parolaccia a casa». Mentre la sanguinaria scalata al vertice di Cosa Nostra da parte dello zio Nitto Santapaola viene così sintentizzata: «Poi è successo quello che è successo, ma mia madre sempre lo dice… tu ti devi figurare che mio zio Nitto, per dire, andava dai salesiani».
Eppure non sempre i propositi di gestire gli affari della famiglia senza colpi di testa, vengono rispettati. Viene registrata in diretta dagli investigatori, ad esempio, la violenta aggressione perpetrata da Romeo a danni di Cristian Alessi, imprenditore della For.edil, colpevole di aver interrotto delle forniture all’esponente della famiglia Santapaola perché in credito di diverse migliaia di euro. Gli schiaffi e le urla rimangono nelle intercettazioni. «Ora ti brucio tutti i mezzi che hai! Ti faccio chiamare i
carabinieri! Ti faccio vedere io, non ti faccio lavorare più», sbraita Romeo che, poco dopo, commenta l’aggressione con uno dei suoi fedelissimi. «Minchia, uno deve ritornare selvaggio, per davvero! Perchè se io per dire tipo il bravo figliolo non lo posso fare. È la mia natura di… di merda!».
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