Emigrare da Palermo, tra scelte di vita e nostalgie Le storie di chi si è trasferito e l’analisi dell’esperto

Dopo il rapporto Italiani nel mondo, che per il 2015 fotografa una realtà che parla di oltre 730 mila siciliani e siciliane che hanno portato la propria residenza all’estero, anche a Palermo si continua a discutere dei dati che inquadrano il fenomeno migratorio. La provincia panormita è al terzo posto in questa classifica, con pressapoco 116 mila trasferimenti ufficiali, mentre il capoluogo della Regione è inevitabilmente al primo posto delle partenze, che per l’anno scorso sono state 28.203, anche se con un’incidenza del 4,3 per cento rispetto al totale degli abitanti. I numeri però non bastano a descrivere un fenomeno sociale importante e imponente. Ed è per questo che abbiamo raccolto storie di persone che hanno deciso di lasciare Palermo per cambiare vita. Come quella di Luciana Favata, che da oltre cinque anni vive e lavora a Parigi. «A Palermo non credevo di avere molte possibilità per il mio futuro, avevo l’impressione di essere bloccata e non completa», spiega. «Sono arrivata in Francia grazie un progetto di Italia lavoro della durata di qualche mese, in uno show-room di complementi di architettura italiani». Luciana aveva già vissuto all’estero: dopo un Erasmus a La Coruna per un anno, ha poi partecipato a un altro progetto a Siena e subito dopo ha preso parte al Leonardo in uno studio di architettura a Madrid. Proprio in questa città ha iniziato a studiare francese, prima quasi per caso e poi con assiduità. Dopo un periodo di difficoltà iniziale seguito al trasferimento a Parigi «ho ricevuto la proposta – continua Luciana – di fare l’architetto per una marca di prêt à porter maschile francese, Devred. Lavoro li da più di un anno. Ha 320 negozi tra la Francia e l’estero». Sì, Palermo le manca ma allo stesso tempo la giovane è ormai a tutti gli effetti inserita nella vita frenetica della capitale francese, anche se la città è stata sconvolta dai violenti fatti di cronaca legati agli attentanti messi a segno dall’Isis. «A Parigi mi sento al sicuro, così come a Palermo – sono le sue parole -. Il 13 novembre, poi, era il mio compleanno per cui non dimenticherò mai quei giorni. Alla fine adesso faccio la stessa vita di prima, continuo a prendere la metro. Qui sto bene e ho diversi amici di tante nazionalità». 

Anche Laura Sauro da anni vive in un’altra città recentemente funestata dagli attacchi terroristici, Bruxelles. Qui ha comprato un appartamento col proprio compagno belga, Tim. Entrambi sono molto soddisfatti dei loro lavori, apprezzano il sistema sociale e quello sanitario in vigore nel Paese, e continuano a realizzare esperienze interessanti. Laura però a Palermo tornerebbe al volo «se ci fosse un lavoro interessante per me e Tim».

Un’esperienza diversa quella di Chiara Sciaulino, anche lei palermitana, che vive a Varsavia con il marito e la loro bimba. «In realtà ho sempre voluto vivere all’estero, anche se forse non come scelta definitiva », dice. «Ho sempre avuto curiosità nei confronti delle altre culture e degli altri modi di vivere. Per questo ho studiato lingue straniere e, dopo la laurea, ho vissuto per un periodo in Germania, studiando tedesco e lavorando». Poi il trasferimento in Polonia, dove le difficoltà non mancano. «Soprattutto avendo una bimba piccola – conferma Chiara. «Mancano supporti sia dal punto di vista dell’aiuto materiale che semplicemente del contatto quotidiano con i propri cari». Da quando è partita tanto è cambiato, da molti punti di vista. «A volte è difficile, sento di non appartenere totalmente a Varsavia, né  a Palermo– spiega Chiara -. Per fortuna ci sono gli amici anche in questa città e la famiglia a casa che aiuta a superare questi momenti. Comunque vivere all’estero ha sicuramente il vantaggio di aprire la mente, se si è pronti a scoprire tutto quello che un posto ha da offrire». 

Sono solo alcuni esempi, ma che ben rendono origini e conseguenze di una scelta: abbandonare la propria terra. A delineare cause ed effetti di queste migrazioni obbligate è  Aurelio Angelini, docente di Sociologia delle migrazioni presso l’Università degli studi di Palermo. «La Sicilia è una zona di transito, anche chi arriva qui spesso vorrebbe raggiungere altri posti. Che nell’Isola non ci sia futuro per le nuove generazioni lo sanno persino dall’Africa». Per provare a capire le ragioni di chi parte, di chi pensa di partire e anche in fondo di chi sceglie di restare lottando ogni giorno, Angelini analizza le condizioni socioeconomiche dell’isola. «In Sicilia – osserva il professore – c’è l’uno per cento delle imprese, in un territorio che ha il dieci per cento della popolazione. C’è un dato strutturale di nanismo, una condizione di sottosviluppo che è stata generata dall’aver in questi decenni favorito politiche parassitarie, investimenti inconcludenti e pensato che attraverso la crescita esponenziale degli apparati pubblici si potesse dare una risposta ai siciliani. Oggi questi nodi vengono al pettine perché l’apparato pubblico non cresce più e anzi decresce, per i giovani non c’è dunque possibilità di trovare sbocco in uno dei tanti sistemi rimasti nani che non sono in grado di sopperire all’assenza di risorse pubbliche e private».

Per uscire da questa condizione  «ci vogliono immaginazione e intelletto al governo – afferma il sociologo – e non si possono solo assecondare i bassi istinti, come le promesse sul ponte di Messina o la costruzione di inceneritori che nascono già vecchi. Noi abbiamo bisogno di guardare in altre direzioni, e per fare ciò ci vogliono altre classi dirigenti. Altrimenti continueremo ad emigrare fin quando non esploderanno fino in fondo queste contraddizioni».


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