Duplice omicidio di Riposto apre la polemica sui permessi premio. «Sono un diritto da non strumentalizzare»

«Il permesso premio è un diritto dei detenuti che non può essere messo in discussione per un singolo caso e non può essere strumentalizzato dalla politica». Ne è convinto Pino Apprendi, il presidente di Antigone Sicilia, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. A metterlo in discussione in questi giorni è stato il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri (Forza Italia) partendo proprio da un singolo caso. Quello del duplice omicidio a Riposto dove Salvatore Turi La Motta, condannato all’ergastolo per associazione mafiosa e per due omicidi, all’ultimo giorno della sua settimana di permesso premio ha ucciso due donne a colpi di pistola, prima di togliersi la vita davanti alla caserma dei carabinieri. «Sarebbe stato meglio che non avessero concesso questo permesso. La tragedia siciliana – ha aggiunto Gasparri – è figlia di un permissivismo che va messo in archivio». In realtà, la concessione del permesso premio per un condannato all’ergastolo è subordinata al fatto che abbia scontato almeno dieci anni di reclusione, abbia tenuto in carcere una condotta regolare e che non sia ritenuto socialmente pericoloso. Valutazioni che vengono fatte dai magistrati di sorveglianza sulla base di relazioni della direzione dell’istituto penitenziario. Se sono positive, l’ergastolano avrà a disposizione 45 giorni di permesso premio ogni anno. Senza la necessità di una nuova valutazione a ogni richiesta. «In questo caso specifico – spiega a MeridioNews l’avvocato Antonio Cristofero Alessi, il legale che negli ultimi anni ha assistito La Motta – in realtà, quanto accaduto ha poco a che fare con la questione del permesso premio».

E, in effetti, l’uomo usufruiva di permessi premio già da diversi anni e l’intero periodo di emergenza dovuta alla pandemia da Covid-19 lo aveva trascorso in regime di semilibertà. Cioè vivendo giorno e notte fuori dal carcere (anche per non mettere a rischio di contagio gli altri detenuti), nella casa del fratello Daniele e della cognata a Riposto, con l’obbligo di andare in caserma a firmare ogni giorno e con delle restrizioni di orari di uscita e diversi divieti da rispettare. «Si tratta di una misura che viene concessa dopo una indagine approfondita – chiarisce il legale – La Motta era stato inserito in un percorso rieducativo e aveva sempre tenuto una buona condotta e da detenuto si era anche diplomato». Finita la fase dell’emergenza pandemica, era tornato nel carcere di Augusta (in provincia di Siracusa) da dove comunque aveva continuato a uscire ogni giorno per andare al lavoro in un panificio della cittadina in provincia di Catania. Sul caso, adesso, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha disposto degli accertamenti preliminari urgenti all’ispettorato generale. Una vicenda che sta facendo discutere e che, come per il tema dell’ergastolo ostativo legato ad Alfredo Cospito, sta dividendo l’opinione pubblica.

A esprimere il proprio parere, andando dal particolare al generale, è stato anche il magistrato Sebastiano Ardita che, nel 1996, era stato il pubblico ministero che per La Motta aveva chiesto l’arresto per l’omicidio di Leonardo Campo. Uno dei due delitti (oltre a quello di Cosimo Torre) che l’uomo avrebbero compiuto nell’ambito di una faida interna a Cosa nostra di cui il fratello Benito La Motta è considerato rappresentante nella fascia ionica del Catanese. «Chi ha commesso fatti così gravi non può tornare libero se c’è il rischio che continuerà a uccidere», ha scritto Ardita sul suo profilo Facebook. E, però, come si calcola quel rischio? «A questo punto – commenta al nostro giornale Pino Apprendi – il rischio vero è che il passo successivo sia la richiesta di reintrodurre la pena di morte. Che poi non è molto diversa dalla pretesa che un detenuto, anche ergastolano, non possa tendere a migliorare la propria vita». Del resto, il carcere dovrebbe avere valore non punitivo ma rieducativo. «Soprattutto io credo che la politica faccia male ad appellarsi a una singola situazione per trarre delle conclusioni generali – analizza il presidente di Antigone Sicilia – Bisognerebbe guardare ai grandi numeri e al fatto che il regime di semilibertà per i due anni e mezzo di Covid è stato un successo della giustizia. I detenuti si sono comportati bene e hanno rispettato tutte le regole di comportamento. E, anzi, è stato un grave errore non rinnovare la semilibertà anche finita l’emergenza sanitaria. Quello che fa statistica – conclude Apprendi – sono i numeri e non il singolo caso. Su questo dovrebbe ragionare la politica avendo come obiettivo una seria riforma della giustizia».


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