Duplice omicidio Falsomiele, sentito primo teste «Il movente? Non siamo riusciti a individuarlo»

«Avete individuato il movente?» «Ci abbiamo provato ma non ci siamo riusciti». Non emerge ancora un perché per l’omicidio di Vincenzo Bontà e Giuseppe Vela, avvenuto in pieno giorno il 3 marzo 2016 in via Falsomiele. Non emerge almeno dalle parole di Del Greco, dirigente della sezione omicidi della squadra mobile di Palermo, il primo teste dell’accusa chiamato al banco dei testimoni. Unica imputata è Adele Velardo, presente in aula e apparsa subito serena e distesa. Lei, fermata già il giorno dopo del duplice delitto, è finita subito nel vortice delle indagini e poi arrestata insieme al marito, Carlo Gregoli, che si è suicidato al Pagliarelli a giugno scorso, nella cella dell’infermeria dov’era sotto osservazione per depressione.

«Abbiamo più che altro battuto la pista di eventuali contrasti pregressi fra le vittime e i coniugi», dice ancora Del Greco a proposito del movente. Ma l’attenzione oggi è tutta per le immagini riprese dalla telecamera della zona il giorno del delitto, mostrate in aula e commentate dal teste citato dal pm Claudio Camilleri. Immagini per le quali i due coniugi finirono immediatamente nel mirino degli investigatori: la loro auto, infatti, viene ripresa mentre imbocca la strada in cui pochi minuti dopo avviene l’omicidio, e subito dopo sempre la loro auto si vede entrare nella via contigua in direzione della loro abitazione. «Il dottor Del Greco le ha commentate, insieme ad altri elementi, ma nulla di più, d’altra parte non è lui che ha svolto le indagini – spiega l’avvocato Paolo Grillo, legale della donna – È stato un esame nel quale riteniamo siano emersi un sacco di elementi che potranno giovare alla difesa. Ma è ancora presto per i commenti».

Si sbilancia un po’ di più invece l’avvocato Marco Clementi, legale insieme all’avvocato Grillo di Adele Velardo: «Abbiamo disintegrato il fatto che ci fosse il tallonamento, perché la macchina non era quella, i numeri di targa sono diversi ed è apparsa anche più sporca, come infangata». Ma a complicare la posizione dei due coniugi all’epoca delle indagini erano state anche le dichiarazioni di un automobilista di passaggio, quel giorno divenuto suo malgrado un testimone prima sentendo il rumore dei colpi esplosi per uccidere Bontà e Vela, e poi vedendo dallo specchietto retrovisore, secondo quanto raccontato agli inquirenti, addirittura le ultime fasi dell’omicidio. Nelle immagini mostrate oggi, infatti, si nota oltre all’auto dei coniugi e a quella delle vittime anche una terza vettura, quella del testimone appunto, sul quale si farà chiarezza nel corso delle prossime udienze.

A sedere sul banco dei testimoni subito dopo Del Greco è Maurizio Martines, sovrintendente capo della mobile di Palermo, che il giorno del delitto si trova alla guida della pattuglia che per prima arriva sulla scena. Ma è solo una formalità, perché accusa e parti civili, cioè i familiari dei defunti rappresentati dagli avvocati Francesco Tinaglia, Giuseppe Oddo e Giovanni La Bua, non hanno alcuna domanda. Mentre la difesa chiede solo un paio di chiarimenti: «Io ho solo fatto quel primo intervento e basta – spiega il teste – Sono arrivato sul posto alle ore 10.05, dopo essere stato allertato via radio. Al 118 infatti era arrivata la segnalazione di qualcuno della zona che aveva sentito dei colpi d’arma da fuoco». Martines ripercorre brevemente quanto riportato nella nota redatta dopo il sopralluogo in via Falsomiele, oggi acquisita dalla Corte.

La prossima udienza si svolgerà a fine giugno e si proseguirà con l’ascolto di cinque teste dell’accusa, che riferiranno in merito alle armi sequestrate ai due coniugi e ai verbali stilati nel corso delle indagini. Sin dall’inizio Adele Velardo e il marito si sono professati innocenti e totalmente estranei ai fatti. Due incensurati, casalinga lei e geometra al Comune lui, ma con la passione per le armi, altro elemento che ha subito messo in allerta gli investigatori, che li hanno trovati in possesso di due calibro 9 regolarmente registrate. A carico di Gregoli, poco prima del suicidio, era arrivata come un macigno anche un’altra prova, quella del suo dna trovato su un bossolo raccolto dalla scena del delitto.


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