Droga, pm etnei hanno indagato l’ex ministro albanese La banda Habilaj e il mistero sull’acquisto dei gioielli

Parlano. Ma lo fanno spesso con una certa reticenza. Sono alcuni degli indagati del processo scaturito dalla retata Rosa dei venti, gli stessi che hanno deciso di rispondere alle domande dei magistrati durante alcuni interrogatori. Volti noti, in particolare in Albania, che tra il 2013 e il 2015 erano stati capaci di mettere su un imponente traffico di droga, e che oggi sono alla sbarra con il rischio di ricevere pesanti condanne. Al centro ci sono fiumi di marijuana, comperata da alcuni grossisti siciliani e poi venduta a Catania e dintorni. Affari da milioni di euro che nascondono tanti viaggi, effettuati in macchina o in traghetto, e una spy story internazionale che ha messo nei guai uomini delle istituzioni, trafficanti e un potente ex ministro dell’Interno albanese. 

«Gli albanesi venivano per contrattare il carico da cedermi e il prezzo […] Poi lo rivendevo ai miei acquirenti di fiducia, in maggior parte a persone dell’hinterland catanese». Antonio Riela, nato a Catania 47 anni fa, è accusato di essere stato uno dei compratori della droga. In stretti rapporti con il narcotrafficante e presunto boss Moisi Habilajcugino dell’ex ministro dell’Interno albanese Saimir Tahiri. Riela è finito in carcere ad ottobre 2017 e adesso, a distanza di alcuni mesi ,emergono i contenuti del suo verbale. Risposte che contengono accuse, ammissioni ma anche alcuni «non voglio parlarne». Come quando decide di non svelare il nome del proprietario di un magazzino, a Gravina di Catania, in cui nascondeva centinaia di chili di droga. Quello di Riela è un racconto in cui vengono svelati anche i dettagli dei viaggi della marijuana via mare o le coperture istituzionali di cui avrebbe beneficato il gruppo. «Moisi (Habilaj, ndr), mi tranquillizzava dicendo che lui era protetto in quanto una persona importante in Albania lo tutelava e gli consentiva di esportare questi grossi carichi di marijuana», spiega.

Ma a chi fa riferimento Riela? «Mi disse anche il nome di questa persona ma ora non lo ricordo», precisa durante il faccia a faccia con il magistrato Andrea Bonomo. Qualcosa nella mente dell’uomo comunque riaffiora. «Ho accompagnato Moisi da un rivenditore di preziosi che si trova alle spalle del tribunale di Catania, in una traversa dentro un portone. Non sono entrato ma so che loro dovevano partire per tornare in Albania e comprarono dei gioielli. Era il dicembre 2013». Quello raccontato da Riela non è l’unico collegamento all’acquisto di una partita di gioielli. In due intercettazioni ambientali, finite agli atti dell’inchiesta, era stato proprio Habilaj a parlare a un suo complice di due braccialetti con diamante acquistati a Catania nel 2013. Secondo la ricostruzione degli inquirenti quei gioielli, del valore di circa quattromila euro, sarebbero stati dei regali, destinati alla moglie e alla madre dell’ex ministro Tahiri. Ipotesi, quest’ultima, smentita sia dal politico albanese che dallo stesso Habilaj. Il presunto capo dell’organizzazione, che ha parlato dalla prigione di Bicocca con i magistrati, sul punto è stato chiaro durante un interrogatorio risalente al 24 gennaio scorso: «È vero, li ho acquistati – spiega – Ma erano per la moglie di Fatosh». Ossia per l’uomo che Habilaj identifica come il suo superiore nei traffici illeciti, cercando di allontanare da sé l’accusa di essere il capo dell’organizzazione. 

Dopo l’arresto del narcotrafficante, che adesso rischia 18 anni di carcere, in Albania è iniziata una lunga inchiesta nei confronti del politico e parente. Accusato, dai magistrati della procura dei crimini gravi di Tirana, di avere coperto gli affari della banda Habilaj in cambio di un tornaconto personale. Ma se nel Paese dell’aquila bicipite il caso resta aperto con tre ufficiali di polizia latitanti, lo stesso non può dirsi a Catania. Dove l’ex ministro è stato iscritto nel registro degli indagati il 27 ottobre 2017, con la procura che però ha chiesto l’archiviazione il 15 marzo scorso, ottenendola il 5 ottobre a firma della giudice Loredana Pezzino. Tre giorni prima di finire sotto la lente d’ingrandimento dei pm etnei, Tahiri aveva mostrato un documento di dubbia autenticità con cui sosteneva di non avere indagini a suo carico a Catania.

Più recenti sono invece le dichiarazioni rese a verbale da Nazer Seiti. L’unico degli indagati a essere stato arrestato in Albania per poi essere estradato in Italia. Sul conto dell’uomo accusato di essere il cassiere del gruppo era anche circolata una falsa notizia su una presunta collaborazione con la giustizia. Nel verbale del suo interrogatorio Seiti racconta di come avrebbe fatto a portare i soldi della droga dall’Italia all’Albania: «Li nascondevamo in scatole di detersivi e poi andavamo con il traghetto». L’indagato esclude però di avere usato l’Audi A8 di proprietà dell’ex ministro Tahiri. Automobile finita al centro di uno scandalo perché effettivamente venduta dal politico, ma a quanto pare in nero, ai fratelli Habilaj. Un capitolo a parte, che emerge nei verbali, è quello legato a una serie di fotografie che vengono mostrate agli indagati. Chiamati a dare un nome e cognome a quelle istantanee. Tra coloro che vengono identificati ci sono anche alcune persone non coinvolte in questa inchiesta, ma che avrebbero ricoperto un ruolo nel traffico di droga. In particolare tra le province di Siracusa e Ragusa


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