Commento a cura di Stefania Arcara, docente di Gender studies a UniCt e fondatrice del Centro studi di genere Genus. Perché stupirsi che il volto sorridente di Giorgia Meloni figuri accanto a quello di Sofia Loren, Samantha Cristoforetti, Grazia Deledda, Margherita Hack, Nilde Iotti, nella locandina di un evento del Comune di Catania? Questa iniziativa, […]
Foto di Stefania Arcara
La Donna (singolare), le donne e la destrificazione della società: Meloni non è forse una donna?
Commento a cura di Stefania Arcara, docente di Gender studies a UniCt e fondatrice del Centro studi di genere Genus.
Perché stupirsi che il volto sorridente di Giorgia Meloni figuri accanto a quello di Sofia Loren, Samantha Cristoforetti, Grazia Deledda, Margherita Hack, Nilde Iotti, nella locandina di un evento del Comune di Catania? Questa iniziativa, come le tante organizzate intorno alla data del 25 novembre, riguarda, infatti, La Donna. Negli ultimi anni le iniziative istituzionali, mirate a spoliticizzare la violenza patriarcale e sottrarla alla lotta femminista, sono divenute sempre più rituali, con un tripudio di scarpe e panchine rosse, e immagini femminili con gli occhi pesti. Dal momento che la storia del femminismo difficilmente viene tramandata, è bene ristabilire la verità storica: la violenza maschile sulle donne è diventato un tema politico, pubblicamente dibattuto, solo grazie a quel movimento transnazionale di massa che è stato il femminismo degli anni Settanta, quel movimento di liberazione delle donne, rigorosamente al plurale: mouvement de libération des femmes, women’s liberation movement. In particolare, nella seconda metà del decennio, in diversi Paesi sono le femministe a mettere la questione all’ordine del giorno. Il femminismo ha sottratto per la prima volta la violenza maschile a millenni di naturalizzazione e ne ha svelato la funzione di controllo sociale nel sistema chiamato patriarcato.
La radicalità di quegli anni in cui si pronunciavano le parole oppressione e liberazione, e in cui sono nati i primi centri antiviolenza, ha gradualmente lasciato il posto a un’espansione e a un’istituzionalizzazione del discorso sulla violenza maschile, grazie anche alla ricorrenza del 25 novembre, istituita dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 1999. La più recente fase di rinascita del femminismo, rappresentata dal movimento transnazionale Ni Una Menos/Non una di meno, a partire dal 2016 ha provato a riappropriarsi in senso militante di questa data, organizzando grandi cortei nazionali a Roma, collegandola allo sciopero dell’8 marzo, e scrivendo un Piano antiviolenza da una prospettiva femminista. Oggi, nella fase di neo-fascistizzazione delle liberal-democrazie che stiamo attraversando, con conseguente spostamento a destra di ampi settori dello spettro mediatico e politico, il 25 novembre è esposto più che mai alla strumentalizzazione da parte del discorso dominante: le iniziative istituzionali, organizzate anche dalla destra, si fanno più spavalde. Immancabilmente invocano La Donna (al singolare), come nella locandina dell’appuntamento catanese, che mostra un collage di figure femminili, assemblate senza altro criterio fuorché la celebrità. L’evento, il cui titolo si apre con la parola Sicurezza, è organizzato non solo dal Comune di Catania, ma anche dall’MpA (Movimento per l’Autonomia, fondato da Raffaele Lombardo) e dall’associazione Un battito e un respiro (nata nel 2022 allo scopo di promuovere la sensibilizzazione sul tema dell’ipertensione polmonare, poi passata alle questioni ambientali e ora a quelle femminili).
Non è un caso che nel titolo della conferenza, accanto a Sicurezza, campeggi il termine Donna, sempre al singolare. Come osservava Monique Wittig, figura di spicco del femminismo materialista francese, «La donna esiste per rendere le cose confuse e per dissimulare la realtà delle donne». La donna al singolare, essenza fluttuante al di sopra della storia e della società, è invece al centro del pensiero della differenza sessuale, una corrente egemonica in Italia negli anni ’90, e ora alla ricerca di nuove occasioni di visibilità, anche se con toni decisamente meno euforici di quelli che all’epoca le avevano consentito di annunciare niente meno che la fine del patriarcato. Questo pensiero, pur dichiarando di riconoscere le differenze tra le donne, mira a valorizzare un’identità di gruppo fondandola sulla biologia riproduttiva: di qui l’enfasi sulla categoria Donna. Recentemente il quotidiano Il Foglio ha ospitato una serie di interviste a esponenti del pensiero della differenza, le quali – qui le cose si complicano – si definiscono femministe (in Francia, al contrario, le loro omologhe, inclusa Luce Irigaray, si sono sempre dichiarate anti-femministe). Il tentativo (fallito) è stato quello di interloquire con la premier, così come era stato fatto tempo addietro con la ministra Eugenia Roccella.
Le differenzialiste partono dall’assunto dell’appartenenza di Meloni alla categoria biologica Donna: su Il Foglio (articolo del 31 agosto 2024, dal titolo: “Ma quale fascista?”) Alessandra Bocchetti esprime il suo gradimento nei confronti della presidente del Consiglio, che «ha reso femminile la politica» e si adopera per scagionarla dall’accusa di fascismo; Adriana Cavarero, intervistata sempre su Il Foglio (“Di cosa parliamo quando parliamo di gender”), pur dichiarandosi estranea al progetto politico di Meloni, l’apprezza in quanto donna che ha raggiunto «posizioni apicali» e quindi «trasmette un valore simbolico positivo». Sembra che l’unica critica che le differenzialiste siano in grado di muovere alla premier riguardi il suo «brutto errore di grammatica» nel rifiutarsi di declinare al femminile il titolo di presidente. Il che dimostra che l’unica cosa che sta davvero a cuore a queste intellettuali è mettere a segno il punto simbolico. Curiosa convergenza, quella fra pensiero della differenza sessuale e destra di governo, nel ricorso alla categoria naturalizzata di Donna e al suo valore simbolico.
La locandina dell’evento catanese è una perfetta epitome di questa sintonia ideologica: esaltare sul piano dell’immaginario la figura femminile, distogliere l’attenzione dalle politiche reali e dalle condizioni materiali delle donne come soggetti sociali. Di fronte a questi discorsi reazionari, consola il fatto che un anno fa una giovane donna, Elena, la sorella di Giulia Cecchettin, abbia avuto il coraggio di riportare sotto i riflettori il termine patriarcato. Rincuora anche il fatto che recentemente, a Padova, dove un dirigente scolastico intendeva vietare il minuto di rumore per ricordare Giulia Cecchettin, la rappresentante della Rete degli studenti medi, Viola Carollo, abbia dichiarato con lucidità: «Il ricordo di Giulia continua e continuerà a passare attraverso la lotta, attraverso la messa in discussione del sistema patriarcale, di cui il femminicidio non è altro che un prodotto». Sono segnali confortanti perché ci autorizzano a pensare che non sia ancora del tutto dispersa l’eredità di quante, prima di noi, ci hanno sollecitate a non cedere alla spaventosa regressione a cui l’ideologia differenzialista conduce. Nel 1983 Monique Wittig, sulla scia di Simone De Beauvoir, ci sollecitava a tenere presente che: «Nostro primo compito è quello di dissociare attentamente le donne (la classe all’interno della quale noi lottiamo) da la donna, il mito. (…) Per diventare una classe, per avere una coscienza di classe, occorre per prima cosa uccidere il mito de la donna». Queste parole Wittig le affidava a un saggio intitolato Non si nasce donna. Un’intuizione attuale oggi più che mai.
(fonte: Monique Wittig, Non si nasce donna, in Non si nasce donna. Percorsi, testi e contesti del femminismo materialista in Francia, a cura di Sara Garbagnoli e Vincenza Perilli, Quaderni viola, 2013, scaricabile QUI).