Con i sigilli al patrimonio di Franco Ferrera torna alla ribalta un cognome che ha fatto la storia criminale della mafia a Catania. Partiti vendendo acqua minerale, negli anni '50 e '60 hanno scalato i vertici di Cosa nostra all'ombra del cugino Nitto Santapaola. Gli ultimi capitoli fanno riferimento a presunte estorsioni e traffici di droga
Dinastia Cavadduzzi, la corsa al figlio maschio e gli eredi Accuse dei pentiti e il sequestro al nipote del capomafia
Sono partiti vendendo acqua minerale e gestendo bische clandestine a Catania. Poi «con i soldi del contrabbando e delle droga» hanno comprato proprietà agricole, alberghi e tanti appartamenti. Sono i Cavadduzzi, gli ex numeri due della famiglia mafiosa dei Santapaola-Ercolano di Catania. Una dinastia che va avanti da quasi un secolo e che oggi torna alla ribalta con il sequestro dei beni di Franco Ferrera. Ultimo esponente di una generazione cominciata con il nonno Salvatore, poi proseguita con il padre, Natale, e gli zii Francesco, Pippo e Nino. Eserciti di pentiti li hanno descritti nei minimi dettagli. Il primo a sbottonarsi però è stato Antonino Calderone, fratello del capomafia Pippo, con il quale ha condiviso tra gli anni ’60 e ’80 la gestione della mafia ai piedi dell’Etna. Gente «sveglia e decisa» che «faceva la corsa al figlio maschio», oltre a essere imparentata con i Santapaola, raccontava il pentito. Svelando la cerimonia d’affiliazione delle punciuta, che nella primavera del 1962 sancì l’ingresso in Cosa nostra di gente del calibro di Nitto Santapaola, Giuseppe Ferlito, zio di Alfio, e Francesco Ferrera.
Pippo Ferrera, poi diventato capo di Cosa nostra in provincia di Catania, è morto a 52 anni nel 1998. Resterà nella storia criminale della città la sua fuga nel 1988 dall’ospedale Ascoli-Tomaselli, quando un commando cercò di ucciderlo. Il boss, ricoverato per una forma di tubercolosi, scappò dalla finestra, rimandando l’appuntamento con la morte grazie alla reazione della sua guardia del corpo. Scese in strada in pigiama e i poliziotti gli trovarono in tasca 13 milioni di lire in contanti. Il fratello, Francesco, venne catturato nel 1991 dopo otto anni di latitanza in Belgio. Lui in tasca, quando gli strinsero le manette ai polsi, di milioni ne aveva 36.
La storia recente della famiglia, appassionatissima di cavalli – da qui il soprannome – , riprende le redini dall’inchiesta Fiori bianchi. Conclusasi con il blitz e i 77 arresti dell’aprile 2013. Tra loro Franco Ferrera, poi condannato nel processo di primo grado a quattro anni. Contro di lui hanno puntato il dito diversi pentiti, tra cui l’ex reggente militare Santo La Causa. Verbali in cui finiscono storie di estorsioni, riunioni, lotte interne tra cosche rivali e vendette. Una di queste, negli anni ’80, avrebbe riguardato Angelo Barbera, che Pippo Ferrara «pensava di avere avuto un ruolo nel tentativo di omicidio in ospedale. Mi indicò anche le armi che avrei dovuto utilizzare – spiega La Causa riferendosi al nipote del capomafia – poi Barbera venne ucciso ma indipendentemente dalla volontà mia e di Ferrera». Dopo un periodo in cui tra i due si perdono le tracce ci sarebbe stato un riavvicinamento nel 2006. Quando la geografia mafiosa è profondamente mutata e i Cavadduzzi sono lontani dai vertici della famiglia Santapaola. «Pensai di coinvolgerlo nella creazione di un cordone di sicurezza attorno a me […] grazie all’intervento di alcuni uomini di cui poteva disporre». Insieme, svela La Causa, avrebbero progettato anche di buttarsi «nel traffico di stupefacenti grazie ai rapporti con un esponente della Camorra».
La Causa è un rullo compressore davanti ai magistrati e associa il nome di Cavadduzzu anche ad alcuni affari legati al mondo immobiliare e alla vendita di automobili, tramite una concessionario di San Gregorio di Catania. C’è poi un passaggio sul centro commerciale I Portali di San Giovanni La Punta e l’imprenditore che l’ha costruito, Nunzio Romeo. Quest’ultimo, stando ai racconti del pentito, sarebbe stato «gestito» dal cugino di Ferrera, Francesco Napoli. A inserirsi nella vicenda, però, sarebbero stati i Laudani, di casa nel territorio puntese. Ecco perché l’allora reggente, oggi pentito, Giuseppe Laudani avrebbe preteso una percentuale del due per cento sull’appalto. Alla fine, come raccontato da entrambi i pentiti, l’imprenditore sarebbe stato spartito tra i due gruppi. «Dopo l’arresto di Salvatore Battaglia presi io in mano la situazione – continua La Causa – e feci in modo di dividere i soldi come si era convenuto». In questo contesto l’ex boss avrebbe cercato di fare inserire anche una ditta di pulizie «ma Romeo mi disse di non poterlo fare perché aveva promesso di dare l’appalto a un’impresa riconducibile al sindaco di San Giovanni La Punta». Le richieste però non finiscono qui e La Causa avanza anche la proposta di fare pagare all’imprenditore 100 euro al mese per ogni bottega affittata all’interno del centro commerciale. «Feci un incontro con Nunzio Romeo nella casa della madre di Francesco Ferrera a cui parteciparono lo stesso insieme a Orazio Magrì […] Alla fine acconsentì di pagare settemila euro mensili benché i negozi affittati fossero più di cento.
A parlare dell’ultimo esponente di sangue della famiglia mafiosa sono anche i collaboratori Ignazio Barbagallo, Nazareno Anselmi, Carmelo Riso e Giuseppe Laudani. Verbali in cui gli stessi riconoscono in foto l’uomo e lo accusano di avere avuto un ruolo nella presunta protezione di un imprenditore, titolare di una concessionaria di automobili. «I Ferrera mi dissero che era un’attività di loro esclusiva competenza». Una vicenda poi conclusasi, stando al racconto di Laudani, «con una dazione ai ragazzi che avevano avviato l’estorsione di un regalo dell’importo di diecimila euro».