I due hanno presentato uno studio al Festival di Trento. Così le imprese sarebbero incentivate a investire nel Meridione, riprenderebbe la migrazione interna e si creerebbe un'uguaglianza reale degli stipendi tra Nord e Sud. Replica il docente Unict: «Le nazioni esistono perché le differenze vengono uniformate dai diritti»
«Diminuire i salari al Sud per far ripartire l’economia» La proposta di Ichino e Boeri. Caserta: «Idea fallace»
Lasciare che i salari al Sud si abbassino. Che la contrattazione sugli stipendi si svincoli dai contratti nazionali e venga fatta all’interno delle aziende. Il risultato? Più occupazione al Sud, che diventerebbe maggiormente attrattivo per le imprese, e più emigrazione verso Nord, ma soprattutto una uguaglianza reale dei salari tra Nord e Sud. È la proposta presentata lo scorso giugno al Festival dell’economia di Trento da tre noti economisti, Andrea Ichino, dell’Istituto universitario europeo di Firenze, fratello del parlamentare Pietro; Enrico Moretti, economista di Berkley, University of California; e Tito Boeri, economista della Bocconi e presidente dell’Inps.
Il loro studio si chiama Divari territoriali e contrattazione: quando l’eguale diventa diseguale, e per certi versi ha scioccato una parte di osservatori e colleghi. «Io – commenta Maurizio Caserta, docente di Marcoeconomia all’Università di Catania, chiamato in causa da MeridioNews – non ci vedo niente di nuovo. Sono proposte vecchie di trent’anni e, a dirla tutta, basate su un’impostazione fallace».
Le premesse: i tre economisti partono dalla considerazione che, come spiega Ichino a Linkiesta, «un lavoratore al Nord percepisce un salario nominale uguale a quello di un lavoratore al Sud, mentre in termini reali percepisce un salario molto inferiore», perché «la produttività del lavoro non è uguale nelle varie aree del Paese». Inoltre, secondo il docente, il fatto che, a parità dei salari, il costo della vita a Nord sia più caro, scoraggia i disoccupati del Sud a emigrare. Insomma, meglio vivacchiare a Sud con poco, piuttosto che trasferirsi al Nord, trovare magari un lavoro ma dover investire tutto lo stipendio in spese varie. A partire dall’affitto. «Il disoccupato del Sud – spiega ancora Ichino al quotidiano online – non si sposta attualmente verso il Nord per gli alti costi della casa. Questo è esattamente il punto: se abolissimo l’uniformità dei salari nominali, si ricreerebbe una mobilità all’interno del Paese che sarebbe assolutamente auspicabile, non deprecabile, perché vorrebbe dire che i lavoratori si sposterebbero dove le condizioni produttive sono più favorevoli. È quello che succede negli Stati Uniti: quando nella Silicon Valley si creano condizioni di maggiore produttività, la gente si sposta in quell’area perché lì ci sono più occasioni di lavoro e salari maggiori».
Le controdeduzioni di Caserta partono proprio da queste premesse. A cominciare dai dati sulla migrazione interna. «Non ci risulta che l’emigrazione da Sud verso Nord si sia fermata – analizza – basti guardare i dati delle immatricolazioni dei giovani nelle università: a livello nazionale c’è stato un calo di circa il 20 per cento, in Sicilia siamo a meno 40 per cento». Altra critica viene mossa al calcolo del salario reale. «Dicono che sia più alto a Sud basandosi esclusivamente sul prezzo delle case – continua il docente di Unict – è vero che in Sicilia un metro quadro costa meno, ma anche qui le persone comprano un sacco di cose, molte delle quali non sono prodotte sull’Isola. Ecco perché mi sembra un’impostazione fallace».
Sulla possibilità che, abbassando i salari, le imprese siano più incentivate a investire in Sicilia, Caserta spiega: «Non basta diminuire il costo del lavoro, la produttività dipende da mille cose. Se al Sud è più bassa non è perché i lavoratori sono meno capaci o più menefreghisti o ignoranti. Piuttosto la proposta di Ichino, Boeri e Moretti non tiene in considerazione che mancano le infrastrutture, i costi di transazione sono più alti così come la rendita della politica». Di conseguenza, per appianare queste differenze puntando solo sul costo del lavoro, «i salari andrebbero drasticamente diminuiti, ma sarebbe un peso insopportabile per i lavoratori».
Caserta, tuttavia, fa salvo il principio dello studio presentato a Trento. «Dare maggiore libertà alla contrattazione periferica – sottolinea – può servire da stimolo, ma non si può immaginare una ricetta di politica economica basata solo su questo. D’altronde se siamo un unico Paese, è anche per gli elementi di solidarietà che esistono, altrimenti saremmo già separati da un pezzo. Le nazioni esistono perché le differenze vengono uniformate dai diritti, di questo – conclude Caserta – parla la nostra Costituzione».