Poker, bingo, lotto, fino a 14 ore al giorno. Guadagnava 1.200 euro e ne spendeva 1.500. Una convivenza fallita, poi l'incontro con Emanuela e la scoperta della malattia degenerativa. Infine, l'esperienza durissima in comunità. «Ho capito l'importanza della libertà, oggi mi sento bene con me stesso», racconta il 34enne
Dario, dal gioco d’azzardo alla sclerosi «Mi voglio bene mentre prima mi odiavo»
Dario Centauro, 34 anni, conta i giorni da quando si è disintossicato. Sono 365. Giocava fino a 14 ore al giorno: poker, bingo, lotto, qualunque tipo di gioco. Specie online. Un caso di Gap, gioco d’azzardo patologico, più conosciuto con il nome di ludopatia. Dario gioca, tra alti e bassi, da 20 anni e non riesce a quantificare quanti soldi ha perso. Guadagnava 1.200 euro e ne spendeva 1.500. Voleva stare sempre da solo, a giocare. Fidanzata, amici, famiglia, passava tutto in secondo piano. «Ci sono due tipi di giocatori – spiega – quello che gioca per comprare qualcosa e quello che gioca per il piacere di farlo. Io sono del secondo tipo. Mi davo un limite massimo da giocare, magari 300 euro, ripromettendomi di andare a letto finita la somma, ma dopo dieci minuti mi alzavo e mi rimettevo a giocare. Sentivo l’adrenalina».
Chi gli era vicino sapeva, ma non capiva. «Convivevo con Cetty, ma non riuscivo a pagare le bollette o a fare la spesa, nonostante avessi un ottimo stipendio. Lei un po’ sapeva, ma non aveva idea di quanto fosse grave la cosa». Una sera Dario le confessa tutto, a lei crolla il mondo addosso, minaccia di andarsene e di lasciarlo. Si riunisce la famiglia, gli chiedono quanti debiti abbia. Pagano tutto a condizione che lui smetta. Lui promette ma non mantiene. La storia con Cetty finisce. «Non ha saputo affrontare la cosa, forse era più grande di lei», dice oggi Dario. In quel periodo, la sua unica occupazione era trovare soldi per giocare: «Li chiedevo in prestito un giorno dicendo che li avrei restituiti due giorni dopo. Ma li perdevo, e allora l’indomani chiedevo un altro prestito per coprire il debito e così via. Poiché ero comunque puntuale nel restituirli, nessuno capiva in realtà quanti soldi spendessi davvero». Fino a quando non si è messo nelle mani degli usurai. «Lì ho capito che avevo perso il filo della mia esistenza. Chiedevo all’usuraio mille, entro qualche settimana dovevo restituirne 1.300».
Dario non si rendeva conto di avere un problema. «Se dici alle persone che sei dipendente dalla cocaina ti comprendono, ma il gioco non viene riconosciuto. Ti dicono solo che sei cretino, per questo è pericoloso. È una dipendenza immateriale, trasparente». Come la malattia che gli viene diagnosticata nel 2011: la sclerosi multipla. La solitudine e la dipendenza dal gioco si aggravano. «Mi nascondevo dietro alla malattia, chiedevo sempre soldi e la mia famiglia me li dava, non volevano negarmi nulla, erano in pena per me. Oggi a pensarci me ne vergogno parecchio», confessa. In quel periodo Dario conosce Emanuela, che lo aiuta a chiedere aiuto. «Un giorno vedo in tv che avevano aperto uno sportello dell’associazione Amici di San Patrignano a Catania». Dopo un colloquio, entra in comunità. «Eppure la mia famiglia era contraria. Credo che temessero di dichiarare una propria incapacità come padre, sorella, mamma o amico».
Dario entra in pre-comunità, un centro isolato in montagna. La vita è durissima. «Mi hanno affiancato a un ragazzo che si era giocato tre ristoranti. Era la mia ombra, dovevo stare sempre con lui, mi mancava il fiato». Con il passare dei giorni, realizza che c’è una grande differenza tra lui e gli altri: «Quelle persone non avevano più nessuno disposto a dare loro un briciolo di fiducia, non avevano dove dormire, un lavoro, degli amici, niente. Io invece avevo tutto questo fuori ad aspettarmi». Dopo 15 giorni decide di lasciare la comunità. «Mi mancava la libertà come l’aria». Quando comunica di voler andare via, nota un cambiamento nell’atteggiamento dello staff. «Mi dicevano che non ce l’avrei fatta da solo, mi sono sentito ferito». Ma consiglierebbe un’esperienza simile. «Mi ha costretto a confrontarmi e ho scoperto quanto sia bello potersi sedere su una sedia da solo, a guardare il cielo».
Adesso Dario fa i conti con la malattia, ma non vuole essere identificato con essa, né essere compatito. «La mia vita è cambiata in una stanza di ospedale. La sclerosi è degenerativa, oggi sto bene grazie alle punture, non so come starò tra quattro anni. Sto male ma non si vede. Non vengo capito, ho degli sbalzi d’umore molto forti, o lo spiego a tutti o passo per quello instabile». Eppure, aggiunge: «Apprezzo ogni singolo giorno, so che c’è chi sta molto peggio di me». La formula progetti per il futuro ha un suono strano per lui. «Non riesco a progettare, magari mi succede qualcosa di stupendo, chissà. Mi sento bene con me stesso, mi voglio bene mentre prima mi odiavo. Leggo la fierezza negli occhi dei amici e della mia famiglia. Sto bene». Dario non gioca da un anno, ma oggi si sente un vincitore.