Dalla Somalia a Ragusa con i corridoi umanitari Storia di speranza senza salire sopra un barcone

Abdi ha 53 anni, la moglie Kadijia ne ha 32. Poi ci sono Mohammed – il figlio maggiore, che di anni ne ha 15 – la 13enne Barwako, con il velo che le lascia scoperto solo il volto, come la mamma, i fratellini Najib e Abdurahman, di 8 e 6 anni, e la piccola Abshiro, due anni e venuta al mondo proprio in quel campo profughi etiope dal quale sono arrivati a Ragusa, dopo aver vissuto per tre anni in una baracca fatta con lamiera e mattoni, ad Addis Abeba, senza acqua potabile né bagno. Un’abitazione fatiscente eppure così preziosa per questa famiglia di allevatori somali fuggiti dalle persecuzioni delle milizie di Al-Shabaab, che prima li ha privati della loro unica fonte di guadagno, gli animali, e poi li tenuti sotto scacco con la minaccia dell’arruolamento coatto per i maschi

Da oggi però vivono in Sicilia. Sono poverissimi e con pochissima istruzione. Solo Mohammed parla un po’ di inglese, per il resto ci saranno da superare anche le barriere linguistiche, grazie anche a un mediatore. La famiglia è arrivata nell’ambito del progetto Corridoi umanitari. Con la Caritas di Ragusa che aveva dato la propria disponibilità a ospitare nuclei familiari numerosi. Il gruppo è arrivato ieri a Fiumicino, trovando un’accoglienza calorosa. Complessivamente in Italia sono arrivate 25 persone, due famiglie sono state smistate a Ragusa e Sanremo Ventimiglia, mentre gli altri rientravano tra i ricongiungimenti con chi la strada italiana l’aveva percorsa già tempo fa. Nei prossimi mesi saranno in tutto 500 i profughi che arriveranno dai vari campi profughi dell’Etiopia, grazie ad un accordo tra il nostro ministero degli Interni, la Conferenza episcopale italiana e il governo etiope.

«Barwako, la ragazza di 13 anni, ha una malattia del sistema immunitario molto seria, la stessa che ha ucciso uno dei suoi fratelli – spiega Vincenzo La Monica, responsabile immigrazione e osservatorio delle povertà Caritas Ragusa -. È una patologia dalla quale non si guarisce, ma che si può tenere sotto controllo attraverso delle cure specifiche che in Etiopia non avrebbe potuto seguire. Ha già subito un intervento e rischia di perdere l’uso dei muscoli, anche per questo la sua famiglia è stata scelta da Caritas e dalla comunità di Sant’Egidio tra le tante da far arrivare nel nostro Paese».

La famiglia adesso si trovano nella struttura denominata Dimora del Battista, e in futuro si valuterà se e dove trasferirli. «Al momento la priorità è sottoporli a degli screening per valutare il loro stato di salute generale – prosegue La Monica – successivamente si penserà all’inserimento scolastico per i ragazzi e a quello professionale per il padre. Vivranno sotto la nostra ala protettiva per un anno, durante il quale lavoreremo per farli entrare nel tessuto sociale ibleo e far loro acquisire le competenze che gli permettano di restare, a cominciare da quella linguistica. Parlano solo il somalo, non conoscono neanche l’arabo, perché vivevano in una condizione di povertà estrema».

Per Abdi e la sua famiglia le istituzioni hanno già risposto presente, dall’Asp alla Prefettura passando per la chiesa e la questura. Adesso la sfida sarà coinvolgere la popolazione, affinché faccia sentire la propria vicinanza. Serve un po’ di tutto, dai vestiti ai giochi, ma serve anche chi sia disponibile a trascorrere con loro un po’ del proprio tempo libero, magari per farli esercitare con la lingua e per offrire un momento di svago e sorrisi dopo tanta sofferenza.


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