Coronavirus, boom richieste per arance e limoni di Sicilia Più domanda e meno produzione, ma servono investimenti

Chi è stato più fortunato o più scaltro, in questi giorni, sta facendo affari d’oro con l’arancia rossa. La stagione sta per finire, del frutto simbolo della Sicilia nel mondo ne rimane poco in giro. E chi gode di una produzione tardiva o chi, come i grossi commercianti, a marzo ha fatto scorte oggi riesce a vendere fino a un euro e 50 centesimi al chilo. In un contesto economico-sociale a pezzi per l’emergenza Coronavirus, il settore degli agrumi fa eccezione.

«A partire dal primo decreto – spiega Giovanni Selvaggi, presidente del consorzio Igp arancia rossa – la richiesta di arance è aumentata in maniera considerevole, ma in generale si è venduto bene tutto l’anno». Stessa cosa per i limoni, per cui si è aggiunto anche un aumento di richiesta a fini disinfettanti. A Siracusa, sede del consorzio Igp, il prodotto è andato a ruba. Ma anche ai piedi dell’Etna, dove l’associazione attende a breve il riconoscimento Igp dall’Europa. Eppure dietro questo buon momento si nascondono dinamiche più complesse. 

«Ci sono diversi fattori da tenere in considerazione – spiega Corrado Vigo, consigliere dell’ordine nazionale degli agronomi – È vero che c’è più domanda, ma c’è anche meno offerta. Rispetto all’anno scorso c’è stata una produzione di arance e limoni inferiore del 40-50 per cento, a causa delle cattive condizioni meteo, vento e pioggia nel Sud-Est, della stagione precedente. In più, per quanto riguarda le arance tarocco le alte temperature dei primi mesi dell’anno hanno anticipato la produzione, tanto che adesso è quasi finita». Ecco perché chi ha ancora prodotto lo vende a peso d’oro. «Per i limoni – precisa Alessandra Campisi, presidente del consorzio Igp di Siracusa – dobbiamo anche considerare che quest’anno manca la concorrenza spagnola, perché il loro principale cultivar, il Verna, produce ad anni alterni». 

Meno produzione e concorrenza, più richiesta. Ma anche costi più alti. «Il coronavirus – sottolinea Selvaggi – non ha solo fatto crescere la domanda. Le spese per i produttori sono aumentate. Se prima su una pianta stavano tre operai per la raccolta, ora ce ne può stare solo uno per garantire il distanziamento». A incidere è anche il costo del trasporto. «Da Siracusa i camion partono pieni per il Nord – spiega Campisi – dove però trovano le fabbriche chiuse, si fa fatica a riempirli di altri beni per farli viaggiare pieni anche al ritorno. Così o rimangono fermi per giorni interi, oppure i camionisti riversano su di noi i costi di un viaggio in perdita». 

Questo mix di fattori ha portato il prezzo medio dell’arancia rossa durante la stagione tra i 40 e i 60 centesimi al chilo in campagna, mentre già a marzo la produzione destinata all’industria, quindi quella di meno valore, si vendeva tra i 25 e i 30 centesimi. Prezzi alti rispetto all’anno scorso. I limoni si sono stabilizzati a 80-85 centesimi al chilo alla produzione, ma con picchi superiori a un euro per il biologico. «Quest’anno – spiega Rosario Maugeri, presidente dell’associazione Limone dell’Etna – abbiamo venduto meno all’industria e più come prodotto fresco. Siamo in fase di ripresa, ma i margini sono ancora molto ampi se consideriamo che attorno all’Etna a metà anni ’80 c’erano tra 10 e 12mila ettari di limoni e oggi siamo a duemila circa».

Eppure la Sicilia non è arrivata sufficientemente preparata a questa congiuntura favorevole. «La domanda di agrumi di qualità cresce da un po’ di tempo e la nostra produzione non basta – riflette Selvaggi -. Se dieci anni fa le istituzioni ci avessero dato ascolto quando chiedevamo un vero piano agrumicolo per la riconversione delle varietà, oggi avremmo il 50 per cento in più della produzione». I conti del maxi-investimento che non è stato portato avanti sull’agrumicultura siciliana, al di là dei fondi europei non sfruttati adeguatamente dalla Regione negli anni, li ha fatti Vigo. «In Sicilia – spiega l’agronomo – ci sono 70mila ettari di agrumeti devastati dal virus della tristeza, di cui solo una parte minoritaria è stata riconvertita grazie alla buona volontà di singoli imprenditori. Per convertire un ettaro servono in media 15mila euro, in totale servirebbe un investimento statale da un miliardo. Oggi – conclude – avrebbe generato un indotto importantissimo e saremmo davvero competitivi».


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