«L’università è morta». È la frase che il docente, scomparso il 28 novembre, disse a un'allieva durante un colloquio a metà tra lezione di storia e di vita. «Dimenticai il motivo per cui ero venuta quando, senza nesso apparente, mi mise fra le mani le carte dell’Inquisizione spagnola in Sicilia»
Conversazione archiviata con Giarrizzo «Sono in questa stanza, per gli studenti»
Se ne ricorderà, degli archivi delle scuole. Ho appreso la notizia della morte di Giuseppe Giarrizzo e ormai posso solo parafrasare quel verso sarcastico («Ce ne ricorderemo, di questo pianeta») che Leonardo Sciascia volle come suo epitaffio. «Inutile, l’università ormai è morta» è ciò che mi disse ai primi di settembre del 2014, anche se pensava che in quel campo ci fosse da fare moltissimo lavoro.
I suoi suggerimenti bibliografici, per il mio progetto sugli scrittori-professori, erano diventati un passaggio tanto temuto quanto obbligato: avevo saputo che, negli ultimi anni, fra le cose che gli stavano più a cuore, c’era «una storia d’Italia come storia delle sue scuole»; che aveva addirittura istituito una fondazione – intitolata a se stesso e alla moglie Maria – per promuovere la ricerca nel settore.
Come tutti i professoroni, quando bussai non gradiva il disturbo: per il primo quarto d’ora rimase a fissare la sconosciuta con espressione assai simile al ringhio di Clint Eastwood in Gran Torino, mentre cercavo di articolare le domande per cui ero venuta. Come tutti gli uomini anziani, alla fine mi scaraventò la sua vita: seppi tutto di quella moglie «che tanta parte ebbe nella sua storia intellettuale», degli anni a Oxford e al Warburg Institute di Londra, seppi del troppo studio e della presunta nevrosi al cuore in età giovanile, delle prescrizioni di riposo e delle passeggiate a Leida. Come un maestro, mi fece dimenticare il motivo per cui ero lì, quando – senza nesso apparente – mi mise fra le mani le carte microfilmate a Simancas dell’Inquisizione spagnola in Sicilia: «Sono in questa stanza, a disposizione degli studenti», puntualizzò.
Non saprà mai che fu molto utile, quella mattina, sapere che almeno quel lavoro non gli sembrasse inutile: perché fra la vita e la morte ci stanno pure i programmi congelati, così le conversazioni rimandate diventano interviste impossibili e adesso non si potrà più attingere al serbatoio inesauribile delle sue dritte.
Vengo a sapere della sua morte mentre cammino ozieggiando in una piazza piena di portici: una di quelle in cui pensi che forse anche le città del Nord, come la Catania degli scrittori, hanno il loro modo di chiuderti e cullarti, di proteggerti e impigrirti. Gli storici come Giuseppe Giarrizzo, però, ci hanno insegnato una Catania diversa, una «città aperta», nata sotto il segno della diaspora, che sin dalla sua fondazione, ha importato popolazione ed esportato idee. Ad ogni modo, in una piazza piena di portici, basta guardare un attimo il cielo, per ricordarsi la distanza dal Sud e dal monastero.
«Era come una torre, proteggeva la nostra cittadella»: Giarrizzo appare così nelle parole di Giovanni Camardi, docente della facoltà di Lettere di Catania. Ma chissà quante volte sarà apparso anonimo e passato inosservato agli studenti dei Benedettini, mentre la sua sagoma tenace e aquilina andava a posizionarsi al secondo piano, da sempre, sempre alla stessa ora del mattino: più che il Preside, un elemento architettonico.