Convento di Santa Caterina, svelato mistero dell’ipogeo «Grazie a relazione tra manoscritto e disegno anonimo»

«Una stanza sotterranea adattata a capriccioso sepolcro». Così, nel Settecento, Ignazio Paternò Castello, quinto principe di Biscari, descrive un ambiente, attualmente inaccessibile, che si trova sotto all’ex convento di Santa Caterina al Rosario, oggi sede dell’archivio di Stato etneo. Una rilevante testimonianza della Catania sotterranea che è stata oggetto di una relazione all’interno di un recente convegno internazionale di studi, svoltosi a Reggio Calabria, intitolato l’Antichità nel Regno. Quattro giorni dedicati all’approfondimento della cultura del Mezzogiorno d’Italia, nel periodo compreso fra il 1734 e il 1861, nel quale alle grandi scoperte dell’archeologia e a una nuova lettura del passato si affiancarono l’emanazione di importanti provvedimenti di tutela del patrimonio e l’avvio di interventi conservativi e di restauro. 

«Riordinando le carte personali di Renata Maria Rizzo Pavone, già direttrice dell’archivio di Stato di Catania, ho trovato un appunto intitolato Sepolcro nel Convento di Santa Caterina, tratto dal manoscritto del principe di Biscari sulle Antichità di Catania», spiega Anna Maria Iozzia, attuale responsabile dell’archivio di Stato. «Attraverso tre tavole non numerate – prosegue – viene descritto e illustrato un ipogeo, rinvenuto nel lato sud-est dell’edificio, in occasione della fondazione del secondo pilastro del chiostro dalla parte di levante». Un documento prezioso che, oltre a essere una testimonianza inedita dell’opera di Biscari, ha rappresentato il collegamento con due incisioni che, fino a quel momento, non erano state identificate. «Da tanto tempo avevo sottomano sia le incisioni sia una parte inedita delle Antichità di Catania – aggiunge Iozzia – che però non ero riuscita a mettere in relazione. Poi l’intuizione e il legame tra il manoscritto e il disegno anonimo che noi conserviamo nell’archivio». 

Una descrizione che arricchisce le conoscenze sullo sviluppo delle aree sepolcrali, soprattutto nella parte orientale della città, diventata, inevitabilmente, anche oggetto di studi. «In base alla documentazione in nostro possesso è possibile ipotizzare che la lunghezza dell’ambiente fosse di sei metri e che avesse una profondità tra i quattro e i sei metri – spiega Rossana Baccari, architetta del Polo museale della Calabria – Naturalmente l’impossibilità di confrontare il ridisegno delle strutture con la realtà e la presenza del banco lavico, che non dava una regolarità nelle proporzioni, non permette di esprimerci con certezza. Questa è stata una prima attività a cui seguiranno degli approfondimenti». 

Una ricostruzione, che procede tra studi e ipotesi, che ha permesso di ampliare il quadro delle conoscenze e di avanzare alcune tesi che sono state esposte all’interno del convegno. «Si tratta un’acquisizione legata a uno scavo nell’archivio – dichiara Maria Domenica Lo Faro, archeologa del Polo museale della Calabria – Applicando una metodologia moderna, abbiamo messo in relazione l’antica documentazione che emergeva dalla relazione di Biscari con studi più recenti e con campagne di indagini portate avanti anche dalla soprintendenza». Un approccio inedito ai documenti del passato dal quale emergono le tracce più antiche della millenaria storia di Catania, esito di una stratificazione che ha portato a edificare la moderna città sui resti delle antiche civiltà greche e romane. 

«Dal punto di vita dell’indagine iconografica – continua Lo Faro – è ipotizzabile, in quest’area, un originario edificio romano, della prima età imperiale, la cui funzione è ancora incerta. Successivamente, intorno al III secolo d.C., quella zona, che era una necropoli e che si trovava al di fuori del perimetro urbano di Catania, è stata rifunzionalizzata come area funeraria. All’interno di un banco lavico – aggiunge – l’uomo ha adattato degli spazi alle sue necessità anche a uso privato, dato che l’ipogeo potrebbe essere legato alla committenza voluta da una famiglia o da una corporazione. Su questo aspetto non abbiamo certezze ma, in base a studi recenti, sappiamo che c’è stata una continuità d’uso fino all’età medievale». 

L’ipogeo, riscoperto casualmente nel Settecento a seguito di un intervento sulla struttura del monastero per l’ampliamento interno del chiostro, attira l’attenzione di Biscari che, insieme ad artisti ed esperti dell’epoca, scende nella cavità lavica e redige una documentazione iconografica che è arrivata fino a noi. «Quando Biscari vede questo ambiente non lo trova distrutto ma abbandonato – prosegue Lo Faro – Noi siamo sicuri che l’intero ipogeo fosse decorato ma, attraverso la documentazione del principe, abbiamo notizie su un solo vano, in quanto le tavole fanno riferimento a tre pareti di uno stesso ambiente». 

La grotta, abbandonata nel corso del tempo a causa degli eventi naturali e del venir meno della sua funzione iniziale, rappresenta, ancora oggi, una straordinaria dimostrazione del rapporto che Biscari ebbe con i tesori della sua città. «L’approccio del principe a questi documenti iconografici era quello tipico di un uomo del Settecento – dice l’archeologa – Biscari forzando, alcune volte, anche le peculiarità di un gusto che era tipico di un’altra epoca ricostruiva il passato attraverso la sua lente, quella del collezionista e della persona che cercava l’estetica. Diventa – conclude Lo Faro – una testimonianza del fermento e del dibattito culturale nel Settecento e un modo per comprendere l’approccio che gli ambienti più colti avevano nei confronti del passato». 


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