Come una guerra la primavera, tributo in musica a Misilmeri Dimartino: «Non saprei scrivere in nessun altro posto»

Sarebbe facile dire che, dopo Basile premiato al Tenco e dal Mei, il videoclip di Dimartino, giudicato il migliore dell’anno sempre dal Meeting degli Indipendenti, rappresenti una vittoria della Sicilia. Il successo del video di Come una guerra la primavera si potrebbe, piuttosto, parafrasare con il titolo del primo disco di Dimartino, prodotto, appunto da Cesare Basile, al quale l’allievo, ora, può finalmente dire: «Caro maestro, abbiamo vinto». Un tributo a Misilmeri, paese di origine del musicista, ma anche, come lui stesso spiega, «un modo per sancire l’unione artistica con Manuela Di Pisa», regista del video e collaboratrice di Dimartino da oltre dieci anni. «Sono felice di avere vinto, anche se il premio è di Manuela», afferma l’artista che ha saputo del premio tramite whatsapp: «In quei giorni mi trovavo in Cina ed ero praticamente fuori dal mondo». 

Dai Famelika, che poi persero una k e guadagnarono una c, ai Dimartino, passando per gli Omosumo: sono tanti i volti di Dimartino. «Sono i vari passaggi che equivalgono ad altrettante esperienze di vita: è come se mi fossi sposato, divorziato, risposato. Come se avessi fatto dei figli, che sono i miei dischi». In un epoca di non-indipendenza politica, finanziaria e sociale, ci si chiede cosa si intenda per “musica indie”. «La musica è bella o brutta – dice ancora Dimartino -. Il genere “indie” come movimento artistico in Italia non esiste, o, almeno, per me non è un criterio di giudizio: anche nel mainstream troviamo progetti molto validi. La valutazione musicale di provenienza discografica è un limite che continuiamo ad avere nel nostro Paese, mentre all’estero è già abbondantemente superata». 

Un paese ci vuole, come ripete Dimartino nel suo ultimo disco, uscito ad aprile, ma in quanti paesi ritroviamo il nostro paese? «Beh, io, ad esempio, dalla Sicilia non me ne sono mai andato, non mi sento un emigrato: non ho lasciato tutto. Nell’Isola scrivo ed è qui che voglio produrre, credo che non sarei in grado di scrivere nemmeno una parola se fossi in pianta stabile a Milano: il Nord è solo un punto di appoggio quando sono in tour, anche a causa degli evidenti limiti geografici che abbiamo giù e che ci costringono a prendere continuamente autobus, treni, aerei». E si parla di Ponte sullo Stretto. Ne La vita nuova c’è chi va fuori e inizia a giudicare in modo indiscriminatamente negativo il Sud e in maniera positiva e totalizzante il Nord. «Perché camuffarsi, cambiare accento per ostentare benessere, se “fuori”, magari, si sta male? Mi piaceva l’idea, oggi ancora utopia, di questi che tornano per le vacanze e non vanno più via». 

Un contrappasso artistico, per un artista che incarna una porzione di una scena palermitana «viva, che si muove, che produce, anche se – continua – è un po’ un deserto: mancano strutture, case discografiche, spazi adeguati. Il progetto 800A è uno degli esempi virtuosi di cui parlo». Gli impresari, però, non mancano. «Ci sono molti ciarlatani, ma anche tanta gente in gamba. L’impresario è necessario ma non fondamentale: è una figura che deve lavorare con cognizione e capacità». Misilmeri è la “terra dei cachi” sia per le produzioni che per gli scenari tipicamente nostrani sotto il profilo socio-politico; una metafora, forse. «Dopo innumerevoli commissariamenti per mafia, adesso abbiamo un sindaco con cui si può parlare, forse è evoluzione. E poi, anche i nostri frutti, buonissimi ma piccoli, potrebbero simboleggiare la qualità che viene scartata da chi privilegia prodotti belli a vedersi ma insapore, da chi valorizza l’apparenza».

Dimartino, che ai suoi inizi sparava a Capossela per omaggiarlo, fa dei suoi accordi la colonna sonora delle storie che scrive e che racconta; è, forse, questo suo essere cronista musicale che lo porta ad affermare che: «In Italia, attualmente, non ci sono testate che scrivono come si deve di musica: non si devono proporre ai lettori mode e gossip, ma testi e arrangiamenti». E non credeteci quando afferma che non ha «più voglia di imparare», perché se gli si chiede di Rosa Balistreri risponde che «si dovrebbe studiare a scuola» e che gli immigrati «ci possono insegnare tanto, per costruire una nuova Europa, allargata e non chiusa in se stessa».


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