Christian Picciotto Paterniti, tra denuncia e narrazione «Porto dentro il ricordo di ognuno dei 300 concerti fatti»

Direttamente dalla grande famiglia Gente Strana Posse, torna a gran voce il rapper Christian Paterniti aka Picciotto, palermitano classe ’83. Tre album con Gente Strana: La storia si ripete (2006) con sonorità raggamuffin, Prima della fine (2009) decisamente più rap e Viaggi di sabbia (2012), il primo interamente suonato dalla band diventata espressione sonora della formazione attuale. Più di 200 concerti all’attivo e diverse collaborazioni con gruppi come 99 Posse, Assalti frontali, Zion Train, Jovine, le argentine Actitude Maria Marta e la rapper francese Keny Arkana con cui ha condiviso il palco nelle tappe del suo tour italiano. Un rap di forte denuncia sociale, nasce e si sviluppa nei centri sociali occupati allargandosi e affinandosi negli anni su vari palchi della penisola ed essendo conseguenza naturale del suo impegno sociale. A Gennaio 2015 esce Piazza Connection, primo disco solista come Picciotto. Mesi fa nasce l’idea di produrre un nuovo disco colmo di musica ma anche di storie narrate. Parte un crowfunding per Musiriser con il quale Christian raggiunge e supera il budget stabilito per la lavorazione del disco, così inizia la produzione di StoryBorderline il suo nuovo imminente album accompagnato dai producer di The Gold Diggers. Attraverso una serie di domande cercheremo di raccontare la sua storia e descrivere i suoi progetti.

Christian raccontaci chi sei, quando nasce la tua voglia di mettere in rima dei concetti.

Da ragazzino come tanti ebbi degli approcci musicali con qualche strumento fino ad innamorarmi del pianoforte che dopo qualche anno per problemi economici la mia famiglia dovette vendere. Musicalmente nasco nei contesti dei Sound system trascinato dai cortei e nei centri sociali. Ricordo la prima volta che mi avvicinai a un carro che pompava una versione di vulesse dei 99 Posse citando una sfilza di nomi di prigionieri politici italiani che mi emozionò tantissimo. Durante l’occupazione dello S.P.A.R.O. a Piazza Magione nel 2004 presi reale consapevolezza dell’efficacia della musica nel creare immaginari per bambini, ragazzi, ragazze e famiglie di quel quartiere che in brani come sugnu palermitano, aggritta o un mu scurdavu si immedesimavano. Si riusciva a ricreare lo stesso dirompente effetto dei brani neomelodici ai quali le borgate popolari del sud sono abituati, ma in un contesto comunicativo evidentemente differente. Esperienza che si ripetè e trovò conferma anche allo Zen già nel 2006 e tuttora a Borgo Vecchio. I ragazzini mi chiedevano di scrivergli i testi, li imparavano a memoria e li registravano coi cellulari usandoli come suonerie, volevano interpretarli, rapparli anche loro. 

In Italia più che in molte altre parti d’Europa è ancora molto forte e visibile la linea di demarcazione tra hip hop prettamente musicale e rap militante, vicino a politica e spazi occupati, come vedi questa situazione?

Si tratta di una distinzione che trova le sue origini e il suo senso in un contesto sociale e culturale purtroppo molto differente da quello attuale: nell’ Italia dei primissimi anni ’90 il fenomeno delle posse era al top, e all’interno di questa cultura che musicalmente svariava tra il raggamuffin e l’hip hop, cresceva l’attenzione per tematiche legate all’impegno sociale e politico, mentre i Centri Sociali erano l’avanguardia della proposta culturale/ musicale alternativa e underground. Io è da li che vengo, e lì ho trovato molti stimoli e moltissimi dei significati dei quali la musica in generale dovrebbe far tesoro. Oggi purtroppo il contesto è molto diverso, e l’etichetta “rap militante” rischia di suonare un po’ troppo autoreferenziale, come del resto, a mio parere, tutte le etichette. 

Arriviamo finalmente al nocciolo dell’intervista: Storyborderline, cosa è?

StoryBorderline è un concept. Un viaggio di 12 brani (+ 3 bonus tracks) dove la rappata è l’anello di congiunzione dei vari ambienti musicali ricreati ma non lo definirei affatto un album hip hop. E’ stato scritto inizialmente per dar voce alle diverse sfumature del mio carattere che mi sono divertito a mettere in scena cambiando il personaggio da interpretare, successivamente mi sono accorto di quanto connessi siano sul reale gli spaccati dei personaggi raccontati, così è nata e cresciuta l’idea del concept: 12 personaggi, 12 storie borderline perché tutte ai margini dell’illusorio modello del “lieto vivere” di questa società, eppure tutte assolutamente comuni e diffuse, tutte legate dalla sottile linea tra un degrado che pare inesorabile e una voglia di riscatto che è e rimane sempre possibile e tutte ricollegabili in una macrosceneggiatura con storyboard annesso. Storyborderline uscirà così in supporto audio e video ma anche come libro al quale stiamo lavorando. “Mara” sarà la prima storia ad uscire e il suo è stato il testo più difficile e che mi ha emotivamente più provato. E’ liberamente ispirato a una storia realmente accaduta e accende il riflettore sul ruolo del ricercatore universitario che in Italia sembra non sia nemmeno un mestiere e su tante altre componenti emotive della donna protagonista.

Una serie di storie incrociate, una serie di videoclip che ne racconteranno le loro controversie, il loro carattere, che metteranno a nudo alcuni personaggi e ambiti sociali?

Intanto questo delirio è stato prodotto dalla gente! La campagna di crowdfunding che ha superato il budget richiesto mi ha fatto scoprire una fan base davvero trasversale che ha creduto in me e nel progetto, dandomi fiducia e finanziando buona parte della sua produzione. I personaggi e i relativi videoclip usciranno con cadenza mensile, e oltre a Simona Malato anche Chiara Muscato e Giuseppe Massa sono stati i primi attori che hanno finora sposato il progetto, dando volto e anima ai personaggi “Silvia” e “Franco”, rispettivamente figlia e marito di Mara. Ho pensato il tutto come un film in cui ogni videoclip è un capitolo di un unico concept, con un’ambientazione appositamente lasciata vaga: molti dei videoclip saranno infatti girati a Palermo, ma le storie raccontano di una fetta di popolazione che deve il suo disagio non ad un luogo geografico delimitato quanto all’agenda economica e politica del “profitto ad ogni costo” uguale in tutta Italia, Europa e mondo occidentale. Giuseppe “Jamba” Giambertone è il regista, coadiuvato alla parte tecnica da Vicè Lo Piccolo coi quali ho ragionato sui soggetti scritti. Per la produzione musicale lo Zeit Studio è la casa e Luca “Satomi ” Rinaudo il “must” di connessione sonora tra i vari producer dei beat, alcuni prettamente hip hop (K9, Dj D, Alex 3’ o 5, Maso Step), altri strumentali (con tutta Gente Strana Posse nel feat. Con Shorty), elettronici (N’Hash) o orchestrali (Gheesa). Menzione a parte per i “Gold Diggers” ovvero Ciaka e Tunaman, oggi producers.

Che tipo di differenze trovi tra gli anni in cui nasceva il tuo progetto ed oggi, a livello musicale?

Eh… di sicuro Internet e ultimamente i social hanno stravolto il concetto di musica. Forse c’è più condivisione e sicuramente più roba da ascoltare ma paradossalmente molta meno ricerca. Da ragazzino io ero tra quelli che scollettava per i cd originali e i mixtape me li facevo con le musicassette in presa diretta. Oggi avere musica è molto più semplice: i ragazzini hanno hardisk strapieni di cartelle musicali di artisti dei quali magari scaricano la discografia ma conoscono a stento un paio di brani. Su internet trovi tutto e molto facilmente, questo va considerato in termini positivi. Eppure io rimango un nostalgico appassionato di quell’aspetto romantico che stava dietro il desiderare un disco e poi ascoltarlo a ripetizione. Anche dal punto di vista della produzione è diventato tutto molto più semplice, potenzialmente chiunque può farsi un album in cameretta e mettersi alla prova, la scena si è infoltita a dismisura, ma la qualità si è inevitabilmente abbassata. Resto convinto però che questo non sia solo un aspetto negativo, anzi, è ancor più stimolante provare a “fare la differenza” nel giusto mix tra talento, concetti e stile e soprattutto sul palco che è il posto naturale dove chi fa musica vuole stare.

Aneddoti, racconti, memorie, scazzi, foto, parole, nomi e immagini?

Porto dentro ogni singolo ricordo dei quasi 300 concerti fatti, da quelli giganteschi con migliaia di persone aprendo il live di Manu Chao o in tour con tutta Gente Strana Posse con Keny Arkana (eravamo noi in 18 e loro in 15…) fino a quelli con un selecta improvvisato e 6 spettatori con 12 cani nello squat di provincia. Tutte esperienze che temprano quella primordiale esigenza comunicativa, ma sempre con la stessa fotta perché chi ha il ‘mic’ in mano e almeno un paio di orecchie davanti a se ha contemporaneamente una responsabilità e un’occasione privilegiata, quella di potersi fare ascoltare. Voglio però raccontarti forse uno dei momenti più belli che la musica mi ha regalato e che non c’entra direttamente col palco: giusto un anno fa, era il 1 Maggio tornavo da un live a Lampedusa all’interno di una tappa “on the road” di Mediterraneo Antirazzista con diversi ragazzini dello Zen 2 con noi. Sulla nave di ritorno saliamo assieme a più di 200 migranti appena arrivati e già pronti per esser “spediti” ad Agrigento. Ci avviciniamo, scambiamo dei saluti attraverso gli oblò separati da un cordone di polizia, qualcuno di loro esce si avvicina e capisce che ho a che fare col rap, mi chiede d’improvvisare un beat box e in due minuti eravamo diventati centinaia su quella nave a rappare in tutti i dialetti del mondo scambiandoci abbracci ed esperienze, col cordone di polizia che si è dovuto scansare. Mi porto dentro i loro racconti, quegli sguardi e quelli dei ragazzi dello Zen, partecipi ed entusiasti, quella voglia di vivere espressa gesticolando e seguendo il flow di più parti di un unico mondo, che resiste e sa ancora emozionarsi in musica.


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