Caso Farmacia, la difesa contesta le prove «Il diario del dottorando morto? Irrilevante»

«Quei documenti non possono essere ammessi come prove». E’ la tesi dei difensori degli imputati del processo Farmacia in corso al tribunale di Catania. Disastro ambientale e gestione di discarica non autorizzata i reati ipotizzati. Le obiezioni riguardano il materiale raccolto dal pubblico ministero, Lucio Setola, dopo la chiusura delle indagini preliminari, ma anche il diario-testimonianza di Emanuele Patanè, il dottorando deceduto nel 2003 per un tumore al polmone, che denunciava le condizioni di lavoro nei laboratori dei veleni della facoltà di Farmacia dell’Università di Catania.

«L’assoluta irrilevanza dei file acquisiti dal computer di Emanuele Patanè si evince dall’udienza del 14 aprile scorso. Quando il giudice ha escluso la richiesta di costituzione di parte civile della famiglia del dottorando e di altri presunti ammalati e deceduti proprio perché fuori dall’arco temporale delle indagini che prende in considerazione questo processo», ha detto l’avvocato Giovanni Grasso, difensore di Franco Vittorio e Marcello Bellia. «Ciò che viene rilevato in un computer non può diventare un documento perché chiunque può modificare il contenuto di uno scritto», secondo Pietro Nicola Granata, difensore di altri tre imputati (Ronsisvalle, Puglisi e Bonina).

«Solo una consulenza tecnica potrebbe accertare l’effettiva paternità del diario», sostiene il legale. Contestazioni a cui si sono accodati anche i legali degli altri imputati che uno ad uno hanno messo in discussione le prove elencate dal pubblico ministero nella scorsa udienza.

Ad essere contestato non è solo il diario di Patané – da cui le indagini hanno preso le mosse  – ma anche i documenti che riguardano i lavori svolti nell’edificio 2 della Cittadella universitaria fino al 2009. Anche questi, secondo i legali degli imputati, non sarebbero ammissibili come prove perché riguarderebbero un periodo successivo ai fatti presi in considerazione dal processo. Così come la documentazione messa insieme dal consulente (dottor Sciacca) di uno degli imputati, poi sentito dalla Procura e inserito nell’elenco dei testimoni da ascoltare al processo. Anche in questo caso prove prodotte successivamente che, secondo le difese, non andrebbero acquisite.

«Il pubblico ministero conduce indagini parallele e a processo iniziato», interviene l’avvocato Attilio Floresta, difensore di Mannino. Ma «in tribunale non si gioca una partita a bocce ferme», risponde Setola. «Il codice prevede che si possa continuare a fare attività di indagine e acquisire documenti, anche successivi alla chiusura delle indagini, nel caso di attinenza con i fatti del processo», dice il pm. «Ed è questo il caso, perché si tratta di carte che certificano nel 2007 l’esigenza di un intervento d’urgenza alle tubature dell’edificio 2 della Cittadella dove erano state trovate tracce d’impurità – spiega il pm – Motivo per il quale i lavori furono fatti in fretta e male, sbagliando l’allaccio di una tubatura ad un tombino. Errore a cui hanno dovuto porre rimedio dopo il 2009, con un intervento successivo».

Mentre per quanto riguarda l’attendibilità della testimonianza scritta dal giovane dottorando prima di morire, «non ci sono dubbi», sostiene il pm. «Il computer di Emanuele è stato sequestrato dalla procura», ragione per cui nessuno avrebbe mai potuto manomettere quei racconti che, tra l’altro, sono confermati dai testimoni in vita che prenderanno la parola durante il processo.

E proprio nella prossima udienza, l’8 giugno, verranno ascoltati i primi testimoni: Elisa Neri e Domenico Prestia, tecnici dell’ IT Group, che tra il 2005 e il 2009 svolsero indagini sulla sicurezza del sito.

 

Federica Motta

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