Caro Primo ministro Giornalista: facile a dirsi, difficile a farsi

Caro Presidente del Consiglio Mario Monti,

le scrivo per sottoporre alla sua attenzione una questione spinosa: l’informazione in Italia. Sono un giovane siciliano di 19 anni che vorrebbe diventare giornalista: facile a dirsi, difficile a farsi. In Italia non esiste una laurea specifica per diventare giornalisti e soprattutto non esiste una legislazione adeguata. Perché un giornalista deve essere schedato e sottoposto ad esame per entrare a far parte di un Ordine, quello dei Giornalisti, che finisce solo per bacchettarci e per chiedere una quota annuale piuttosto che tutelarci? L’Ordine non è un sindacato. Non è la Fnsi.

Ritengo, inoltre, inadeguata la differenza tra giornalisti pubblicisti giornalisti professionisti: cosa li differenzia e perché per «scrivere sul nostro taccuino» dobbiamo essere schedati? Una legge che poteva andar bene ai tempi dei miei genitori, ma che oggi appare quanto più anacronistica: siamo nell’era di Internet. Cerchiamo di essere sinceri: in pochissimi leggono i giornali cartacei, soprattutto tra i giovani. Oggi l’informazione si è spostata su Internet che, mi consenta, è assai più libera. Dal cartaceo al web. Dai quotidiani a pagamento ai free press. A mio avviso non può ritenersi libera l’informazione in Italia: come potrebbe mai esserlo se la principale tv privata italiana è controllata da un imprenditore nonché politico ed ex premier? Come potrebbe mai esserlo se la tv di Stato è controllata da un Cda costituito da politici che perseguono i loro interessi? Perché la tv di Stato è stata inondata di pubblicità? E quale sarebbe il servizio pubblico che continua a garantirci la Rai? Non posso ritenere servizio pubblico quello che mi offre programmi pollaio o telegiornali palesemente faziosi: non è fare servizio pubblico pagare 300mila euro a puntata a Rosario Fiorello o sperperare milioni di euro in un programma come il Festival di Sanremo che oramai dà più spazio allo spettacolo che alla musica. Come possiamo fare noi giovani a salvarci da questa giungla e da un settore, quello dell’informazione, sempre più imbavagliato? Peppino Impastato e Giuseppe Fava ne sono un esempio: uccisi perché raccontavano la verità.

Sembra quasi che fare informazione sia diventata una croce. L’articolo 21 della nostra Costituzione è per me l’unica ancora di salvezza. Non posso dire lo stesso per tutte le leggi, soprattutto nel settore televisivo, che sono state promulgate negli scorsi anni e che hanno creato sempre più confusione, favorendo posizioni dominanti e una gestione oligopolistica, per non dire monopolistica, del settore televisivo. In Italia manca il pluralismo. In Italia manca anche una giusta formazione per noi futuri giornalisti: non ci serve studiare sociologia piuttosto che marketing per essere dei bravi professionisti. Non ci serve superare un esame di stato o, ancora peggio, un’iscrizione all’Albo.

Aveva ragione l’ex Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini quando definì inutile il corso di Scienze della comunicazione: con tutto il rispetto che nutro per i professori e per la loro indiscutibile cultura, ritengo che nelle università italiane manchi soprattutto uno sbocco pratico, concreto, che ci immetta immediatamente nel mondo del lavoro. Per diventare avvocati ci si iscrive a Giurisprudenza, per diventare medici a Medicina, per diventare architetti ad Architettura: perché per diventare giornalisti non esiste una laurea specifica? E quello che mi fa rabbrividire è l’escalation delle università private e dei costosissimi master: perché per accedere all’esame di stato per diventare giornalista professionista devo frequentare un corso a numero chiuso che costa fino a 20mila euro? Un’esperienza senza dubbio importante e formativa. Ma, secondo l’articolo 34.3 e 34.4 della nostra Costituzione, anche ai meno abbienti (purché meritevoli) deve essere garantito il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.

Formazione a parte, ed anche per esperienza personale, invito a chi ritiene la categoria dei giornalisti come privilegiata a farsi un giro tra le redazioni giornalistiche italiane per scoprire come i contratti a tempo indeterminato siano un’utopia, come siano indecenti le condizioni nelle quali noi siamo costretti a lavorare, pur di inseguire la nostra passione. C’è chi scrive articoli senza che questi siano riconosciuti per il conseguimento del tesserino da giornalista pubblicista, c’è chi scrive articoli senza essere minimamente retribuito, c’è chi scrive articoli per avere un rimborso di 1-2 euro cadauno che sono uno schiaffo alla nostra intelligenza, c’è chi, ottenuto un buon compenso, è costretto a non scontentare il suo editore e dunque a soffocare la propria libertà d’opinione. C’è, infine, chi si ribella al sistema, denuncia le ingiustizie e spesso ci rimette anche la pelle (basti pensare a Giuseppe Fava). Come può un giovane giornalista denunciare un’ingiustizia se, oltre a non guadagnare, non ha nemmeno una tutela legale da parte del proprio editore? Raccontare la verità significa anche ricevere pressioni e querele che un giornalista non potrà mai sostenere, se lasciato da solo in questa giungla d’ipocrisie.

E poi la beffa degli stage: esistono aziende che fanno raccolta di stagisti. A loro sta a cuore sfruttare giovani talenti, senza alcuna prospettiva d’inserimento. L’importante è produrre ma non pagare. E attenzione: se il giornale non dovesse essere convenzionato con la nostra università, lo stage non può aver luogo. I giornali non hanno nemmeno i fondi per coprire le spese dell’assistenza sanitaria. Peccato che, stando agli ultimi dati pubblicati sul sito ufficiale del Governo, giornali come Avvenire o L’Unità siano stati brillantemente sovvenzionati dallo Stato con ben 6 milioni di euro (contributi all’editoria per l’anno 2009).

Per concludere: i giornalisti devono essere messi nelle condizioni di svolgere liberamente la loro professione, assicurando la massima libertà di stampa, una formazione adeguata e anche compensi dignitosi (Art. 36 della Costituzione italiana: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa»).

Certo della serietà e della competenza del suo Governo che, non essendo politico, può prendere decisioni anche impopolari, attendo un suo riscontro.

 

Cordiali Saluti.
Fabio Giuffrida.

[Foto di Everton Amaro]


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