Bellini, l’estrema leggerezza dell’ex direttore Bruno «Io mi fidavo di quelli, io firmavo anche la mondezza»

«Gli ho detto: “Lo vuoi sapere che cosa? C’è una differenza tra me e te: io sono una persona perbene e tu sei un ladro“. Gli ho detto: “Questa è la differenza tra me e te, tu ti dovresti andare a vergognare, tu non dovresti neanche pensare di rivolgermi minimamente la parola. Perché se abbiamo 31 euro e 65 centesimi in cassa è perché tu te li sei rubati“». La conversazione intercettata dai militari della guardia di finanza è un rigurgito di astio tra dipendenti. A parlare sono un lavoratore dell’istituto musicale Vincenzo Bellini con la collega Marina Motta. Lei è finita in manette nell’ambito dell’inchiesta The band della procura di Catania, che ha scoperchiato un presunto sistema di trasferimenti illeciti di denaro tra il Conservatorio etneo e diversi dipendenti infedeli e imprenditori compiacenti. La somma complessiva che sarebbe transitata dalle casse del Bellini a quelle dei privati è di 14 milioni di euro, dal 2007 al 2016. Di questi, cinque milioni sarebbero finiti direttamente nelle mani di Giuseppa Agata Carrubba, responsabile dell’ufficio ragioneria dell’istituto e madre della consigliera comunale di Articolo 4 Erika Marco.

Il lavoratore che si sfoga al telefono con Motta parla di Paolo Di Costa, un altro dei dipendenti arrestati ieri mattina nell’ambito dell’operazione delle fiamme gialle. Di Costa si sarebbe appropriato, secondo gli inquirenti, di 104mila euro. La conversazione intercettata avviene ad aprile 2016 e la magistratura catanese ha aperto il fascicolo sull’istituto musicale Vincenzo Bellini da appena un mese. I licenziamenti di sette dipendenti, tutti coinvolti nell’inchiesta, avverranno in blocco alla fine di maggio di quell’anno. E Motta, che secondo gli inquirenti avrebbe portato via dalle casse dell’ente oltre due milioni e 700mila euro, al collega che parla di Di Costa risponde: «Pezzo di merda… Pezzo di merda… Dopo tutti i soldi che si è fottuto». «Arriva e mi viene a dire – continua il collega di Motta – Che era bello quando io (Di Costa) e la dottoressa Carrubba ci mettevamo i soldi e ti mandavamo a Roma. Gli ho detto: “Senti Paolo…”». I toni si alzano facilmente perché le cose, all’istituto, ormai non sono più come una volta.

A sconvolgere certi equilibri sembra essere l’arrivo, con il ruolo di direttrice amministrativa, di Clara Leonardi. Che, al contrario del suo predecessore su certi movimenti vuole vederci chiaro. A rivestire quel ruolo prima di lei, dal 2009, c’è il collega Francesco Bruno, ex ragioniere generale della provincia e del Comune di Catania, non indagato. È lui a co-firmare molti dei mandati di pagamento sospetti contestati alla signora Carrubba, per via di quella che gli investigatori definiscono una «cieca fiducia» nei confronti dell’operato della responsabile. Talmente cieca da spingerlo a richiedere alla banca una «piena delega» per la dipendente in «relazione all’operatività di firma dei mandati». Operazione che l’istituto di credito, però, stoppa tramite il proprio ufficio legale. Su Bruno gli accertamenti della guardia di finanza di Catania non hanno dato alcun esito e il burocrate non risulta coinvolto nell’inchiesta penale. «Io avevo la massima fiducia in quelle persone – dice Francesco Bruno al telefono con la direttrice generale del Comune di Catania Antonella Liotta, il 28 aprile 2016, quando l’inchiesta era già finita sui giornali – Io ci firmavo anche la mondezza».

«La legge – continua Bruno nell’intercettazione – prevede che sia solo il ragioniere a firmare i mandati. Quindi io ancora di più gli davo minore importanza, e facevano di tutto e di più. Lì è da arresto immediato. È una cosa che mi ha colpito, ma moltissimo, anche perché io diciamo che ne sono investito. Io ero il direttore amministrativo e non vedevo niente? Ma che ne potevo sapere se mi conciavano la spesa per il personale e scaricavano indennità e cose varie?». Frasi che, per la giudice che firma l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 23 persone, da un lato sono un’ammissione, da parte di Bruno, «della estrema leggerezza del proprio operato»; e dall’altro testimoniano la «mancata conoscenza delle norme regolamentari che avrebbero dovuto essere dallo stesso seguite e applicate per il corretto svolgimento della propria funzione». 

Sarebbe stata proprio la «carenza di qualsivoglia verifica», da parte di Francesco Bruno e del collegio dei revisori dei conti, a permettere il «sistematico saccheggio» subito dall’istituto musicale Bellini. Poiché loro avrebbero «abdicato ai poteri di vigilanza sulla legittimità, regolarità e correttezza dell’azione amministrativa contabile». A mettere una pezza sul buco sarebbe stata, poco dopo il suo arrivo, la dottoressa Leonardi. Che si sarebbe accorta, per esempio, di mandati di pagamento che all’istituto Bellini venivano registrati con una determinata causale e che, invece, venivano portati brevi manu alla banca, consentendo un cambiamento di destinazione d’uso del denaro. Le verifiche della funzionaria neo-assunta – che comincia a chiedere fotocopie di ogni documento per smascherare «il giochino» – spingerebbero Carrubba a falsificarne la firma. Un espediente riuscito fino all’inizio di marzo 2016, quando la banca blocca un bonifico e chiede di parlare espressamente con Leonardi. «Il pomeriggio del 3 marzo la signora Carrubba mi contatta telefonicamente chiedendomi di incontrarmi urgentemente – racconta Leonardi agli investigatori nel corso di un colloquio – Mi disse che mi avrebbe chiamata la banca perché c’era un mandato di pagamento bloccato con la mia firma falsa».

Secondo la ricostruzione di quell’incontro pomeridiano in automobile, avvenuto di fronte al bar Alecci di Gravina di Catania, Carrubba avrebbe pregato Leonardi di «far andare avanti il mandato, adducendo una serie di notizie personali e familiari che l’avevano portata a compiere l’atto, chiedendomi di comprendere tali comportamenti dipendenti dalla messa all’asta della propria casa e dai prestiti usurai». Difficoltà economiche alle quali lei sarebbe stata costretta a fare fronte. Leonardi, poi, aggiunge che Carrubba le avrebbe paventato, in quella occasione, anche «la possibilità che la banca mi avrebbe potuto esibire dei mandati del 2015 riguardanti pagamenti a suo favore giustificati dall’espletamento di mansioni superiori – e conclude – La signora Carrubba precisò anche che sia il marito che le proprie figlie non erano a conoscenza di questi fatti…».


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