Il 51enne Orazio Romeo è uno dei 71 arrestati della maxi-operazione seguita a un'inchiesta che ha coinvolto le procure di Catanzaro, Reggio Calabria, Roma e Napoli. Sotto la lente dei pm, il business illecito legato ai carburanti adulterati e il riciclaggio di denaro
Mafia e petrolio, il filone siciliano e l’erede di Pappalardo «Se tu hai soldi in nero io te li faccio diventare bianchi»
Una cooperazione tra mafia e imprenditori con al centro il business dorato del carburante. Può essere riassunta così l’inchiesta Petrolmafie che nei giorni scorsi ha portato a una maxi-operazione coordinata dalle procure di Catanzaro, Reggio Calabria, Napoli e Roma: 71 misure cautelari, di cui 56 arresti, e un sequestro di beni per un miliardo di euro. Numeri da capogiro in cui si inserisce un filone investigativo tutto siciliano con vista Etna. Tra coloro che sono finiti dietro le sbarre c’è pure l’imprenditore Orazio Romeo, patron di Sp Energia Siciliana e nipote del cavaliere Sebastiano Pappalardo. L’azienda, dichiarata fallita nel 2020 dopo 50 anni di attività perché travolta da debiti milionari, in passato è stata l’ammiraglia degli affari della famiglia nel settore delle pompe di benzina.
Nelle carte dell’inchiesta Romeo è accusato di avere messo a disposizione le sue società per «agevolare lo smercio di carburante contrabbandato». Combustibile acquistato a prezzi scontati che poi sarebbe finito nelle pompe di benzina dell’imprenditore per la vendita al dettaglio. Il tutto, secondo i magistrati della procura di Catanzaro, con l’aggravante di avere agevolata la cosca della ‘Ndrangheta dei Mancuso, particolarmente attiva nell’area di Vibo Valentia. Romeo viene affiancato ai fratelli Antonio e Giuseppe D’Amico, bollati come «il vero motore dell’associazione». A loro sarebbe spettato il compito di fare da ponte con i Mancuso e in particolare con Silvana, nipote del boss Luigi Mancuso. Un’alleanza che si sarebbe poggiata anche sulla possibilità di riciclare denaro. «Se hai soldi in nero io te li posso fare diventare bianchi», diceva Romeo in una delle migliaia di intercettazioni trascritte negli atti. «Io so trasformare il nero in soldi», assicurava l’imprenditore erede della Sp.
Nel 2018 gli inquirenti, durante un servizio di osservazione, riescono a immortalare un incontro tra Romeo e i fratelli D’Amico. Il faccia a faccia avviene all’esterno di un bar nei pressi dello svincolo autostradale di Sant’Onofrio, in Calabria, e subito dopo l’imprenditore siciliano si sposta per discutere con Silvana Mancuso. Cinquantuno anni, nipote del boss a capo dell’omonima e potentissima ‘ndrina che ha il proprio cuore a Limbadi, in provincia di Vibo Valentia. È lei che tra il 2018 e il 2019 avrebbe curato gli interessi della famiglia nel business del contrabbando di gasolio. Una fonte di ricchezza che si sarebbe poggiata sull’adulterazione dei prodotti petroliferi e su una serie di raggiri sfruttando le pieghe della normativa fiscale che regola il settore. In questo quadro, il ruolo di Romeo sarebbe stato tutt’altro che secondario. «La parte finale nostra», lo definisce Giuseppe D’Amico, rivolgendosi a Silvana Mancuso, chiarendo che bisogna evitare di interrompere i rapporti perché «ci può prendere (comprare, ndr) a noi il materiale, sennò a chi glielo diamo?»
Tanto i D’Amico quanto i Mancuso, infatti, erano a conoscenza della fittissima rete di distributori controllati da Romeo in Sicilia e non solo. Gli investigatori ricostruiscono anche che uno di questi, localizzato nel Vibonese, l’imprenditore siciliano lo ha ceduto per un prezzo di favore a un nipote dei Mancuso, a riprova di come i rapporti tra le due parti fossero stretti. Tuttavia non sarebbero mancati gli attriti che, a tratti, hanno anche rischiato di sconfinare in azioni violente. Silvana Mancuso avrebbe preteso che Romeo pagasse una somma per ogni autobotte riempita dal deposito gestito dai D’Amico. Supposti crediti per i quali la donna sarebbe stata disposta anche a interventi di forza. «Come salgono a Napoli (Romeo e un suo socio, ndr) faccio a che li menano a tutti e due, per bene, una bella vattiata», dice D’Amico di fronte ai solleciti di Mancuso. Per l’uomo, comunque, la strada da preferire sarebbe stata quella della diplomazia. Perché facendo in modo che Romeo restasse «l’amico dalla Sicilia», per i Mancuso si sarebbero aperte le porte per altri affari illeciti. «Orazio, da quanto so io, sta chiudendo una grossa partita in Germania, di olio lubrificante. Un altro business serio, perché c’è sia olio normale, che in nero», rivelava D’Amico alla donna.
Tra l’imprenditore siciliano e il fornitore calabrese ci sarebbero stati anche momenti per reciproche confidenze. Anche a proposito della stessa Silvana Mancuso. Per quanto mostrasse un carattere forte, per entrambi la donna non avrebbe avuto la stoffa per rilevare la leadership della famiglia. «Si vuole atteggiare», commentava Romeo. Restando in tema familiare, per gli inquirenti una dimostrazione di come D’Amico – e quindi i Mancuso – e l’erede del cavaliere Pappalardo fossero vicini è rintracciabile in una conversazione del 27 novembre 2018. D’Amico promette a Romeo di presentargli un pezzo grosso della famiglia, che da lì a pochi mesi sarebbe uscito dal carcere. Per la procura il riferimento è a Giuseppe Mancuso, meglio conosciuto come Peppe ‘Mbrogghia. «A gennaio ti faccio conoscere un personaggio che con i tuoi compaesani stava a tavolino. Questo si è seduto per tante cose», dice D’Amico. Per i magistrati l’allusione del calabrese sarebbe stata alla proposta, fatta da Cosa nostra alla ‘Ndrangheta all’indomani delle stragi del 1992, di sposare la strategia dei Corleonesi.