Gela e la Stidda, il doppio volto della società civile «C’è chi si rivolge ancora alla mafia e chi denuncia»

Sorpresi dalla rinnovata aggressività della Stidda, un’organizzazione che a un certo momento «si dava quasi per spacciata». Gli investigatori che hanno condotto l’indagine Stella Cadente sottolineano la capacità di rinascere da parte dell’associazione mafiosa a Gela. «Contro la Stidda un’operazione ben strutturata non si faceva da 15 anni», ricorda Marzia Giustolisi, capa della squadra mobile di Caltanissetta che ha guidato l’attività. 

Sono state tre scarcerazioni a segnare il nuovo attivismo della Stidda: nel 2014 quelle dei fratelli Bruno e Giovanni Di Giacomo e tre anni dopo quella di Vincenzo Di Giacomo. «C’è un’ala violenta e una imprenditoriale – spiega la dirigente Giustolisi – soggetti che non avevano remore a punire chi mancava di rispetto per le più svariate ragioni: chi non si riforniva da loro, ma anche chi diceva una parola fuori posto come un camionista minacciato di staccargli la testa. C’era un clima di intimidazione capillare».

A questo proposito il capo della Procura Amedeo Bertone sottolinea come nella società civile gelese convivano due anime: «Il dato preoccupante è che determinati conflitti si risolvono attraverso il ricorso alla mafia». Ad esempio per un motorino rubato o per risolvere diatribe. «Ma chi si è rivolto alla mafia per risolvere problemi – continua il procuratore di Caltanissetta – ha dovuto constatare che subito dopo la mafia ha indirizzato le attenzioni proprio su di lui». Dall’altra parte, però, alcuni imprenditori hanno denunciato, anche grazie al supporto dell’associazione antiracket Renzo Capponnetti. «C’è la reazione dello Stato e della società civile – sottolinea Bertone – i cittadini devono stare dalla parte dello Stato e denunciare tutti i fatti».


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