Arata-Nicastri, il piano per l’oro delle rinnovabili «Società? Non risulto ma sanno che ci sono io»

«È stato il più grande errore della mia vita, poi glielo dirò in faccia a tuo papà. Adesso ho l’impressione che mi reputa un coglione. Gli succhiamo tutto il sangue che è possibile, tanto è del Nord». A gennaio, quando ancora il suo nome non era finito sulle pagine dei giornali, arrivando al punto da mettere sotto stress l’alleanza di governo tra Lega e M5s, il rapporto tra Paolo Arata e Vito Nicastri sembrava già essere incamminato a passo veloce sul viale del tramonto. Almeno stando alla delusione che il primo – ex deputato di Forza Italia, in tempi più recenti avvicinatosi al Carroccio – non esitava a comunicare al figlio di colui che è stato ribattezzato re dell’eolico ma per affari che sarebbero frutto della vicinanza con Cosa nostra. A partire dal boss Matteo Messina Denaro. Fatti questi che hanno portato di recenti i pm a chiedere per Nicastri una condanna a 12 anni per concorso esterno.

Le vite di Arata e Nicastri, e dei loro figli Francesco e Manlio, si incrociano a partire da dicembre del 2015. La data è fissata nelle carte dell’inchiesta della procura di Palermo che ieri ha portato all’arresto dei quattro, oltre che a quello del funzionario regionale Alberto Tinnirello, accusato di essere stato al servizio – lautamente remunerato – dell’ultimo tentativo di speculazione sulle rinnovabili. Non più soltanto eolico, ma anche fotovoltaico e biometano. Ovvero l’ultima frontiera nella difficile gestione del ciclo dei rifiuti. Mondo che, ai tempi del rilancio del movimento ambientalista internazionale, può sollecitare anche appetiti criminali. Compresi quelli – i magistrati non lo escludono – dei clan.

Per allineare i tasselli della vicenda bisogna andare a oltre tre anni e mezzo fa. Nicastri, convinto di potere portare avanti i propri affari ma consapevole delle attenzioni che gli rivolge l’autoriza giudiziaria, è alla ricerca di nuovi compagni di viaggio. Persone che possano offrirgli garanzie sui progetti da portare avanti e fornendo un’immagine pulita. Per questo, secondo la procura di Palermo, l’imprenditore originario di Alcamo avrebbe individuato nell’ex parlamentare genovese l’uomo giusto. Il 2 dicembre 2015, infatti, Arata con la società Alqantara acquisisce dalla Quantans di Antonello Barbieri – milanese ritenuto prestanome di Nicastri – la totalità delle quote della Etnea. L’operazione, che per i magistrati ufficializza l’inizio dei rapporti economici tra Arata e Nicastri, costa complessivamente 300mila euro. Parte di questa somma poco dopo sarebbe finita nelle mani dell’imprenditore alcamese. Barbieri, infatti, prima deposita il denaro in una filiale bancaria milanese e poi da lì li trasferisce in Svizzera, in un conto intestato alla seconda moglie di Nicastri. La quale a sua volta, a poco a poco, verserà il tutto smistandolo tra il conto di Manlio, quello di una delle società della galassia Nicastri e anche in uno intestato allo stesso marito.

Si tratta solo di uno dei tantissimi movimenti finanziari monitorati dalla Dia nel corso dell’indagine, per confermare la tesi per cui dietro gli Arata ci sarebbe Nicastri. D’altra parte è lo stesso ex parlamentare – su cui ieri Matteo Salvini si è espresso negando sia mai stato un «consulente» della Lega – che non manca di sottolineare i propri rapporti con il re dell’eolico. In un’occasione al telefono si presenta così: «Sono Arata, il socio di Vito». Ma chi pensasse che tra i due ci sia sempre stata un’intesa perfetta prenderebbe un abbaglio. Non sapendo di essere intercettato, Arata non manca di esprimere il proprio dissenso nei confronti delle indicazioni date da Nicastri. Ciò si manifesta in particolar modo nella gestione dei momenti più caldi del principale business che i due avrebbero ideato: riuscire, tramite proprie società, a ottenere le autorizzazioni per la realizzazione di impianti di produzione di energia, in modo da vendere il pacchetto completo a grosse holding capaci di sostenere gli investimenti per la realizzazione e messa in esercizio di stabilimenti, con la consapevolezza di potere beneficiare di incentivi economici. Nell’ordinanza vengono citati diversi rapporti di questo tipo: dal gruppo Agatos dell’imprenditore Leonardo Rinaldi al gruppo Maccaferri fino a una società del gruppo Banca Finint. Quando tra gli interlocutori – tutti estranei all’indagine – c’è chi avanza perplessità sul ruolo di Nicastri all’interno delle società che portano avanti gli iter alla Regione, il diretto interessato rassicura: «Non risulto manco lontanamente, tutti lo sanno che ci sono io, però non risolto da nessuna». 

Tuttavia, nonostante queste accortezze e le entrature negli uffici regionali, le strade non sarebbero state in discesa. Emblematica da questo punto di vista è la vicenda che coinvolge i progetti per gli impianti di biogas da realizzare a Calatafimi-Segesta e Francofonte. Stabilimenti che, nell’ottica di Nicastri, avrebbero dovuto trattare non solo rifiuti organici ma anche rifiuti indifferenziati, riuscendo così a massimizzare un potenziale business da far fruttare in sede di vendita delle autorizzazioni. Per fare un esempio: a un broker interpellato per il rilascio di una fidejussione bancaria da otto milioni di euro, Manlio Nicastri dice chiaramente che quello «è il valore dell’impianto». Nel caso però del biogas le cose si sono complicate anche per l’eco mediatico creata dall’opposizione di Legambiente e del Movimento 5 stelle a Calatafimi. Mancano pochi giorni al natale del 2017 e Nicastri, dopo avere percepito che la strada per ottenere la valutazione di impatto ambientale potrebbe essere in salita, spera di riuscire ad avare i via libera tramite semplici pareri da accompagnare a un’autorizzazione più semplificata. Per farlo chiede anche all’ex deputato regionale dell’Udc Francesco Regina (non indagato, ndr), anche lui originario di Alcamo, di accompagnare il proprio legale negli uffici. Ottenuto il semplice parere favorevole, il resto sarebbe venuto da sé. «Il servizio 3 lo convinciamo, lo convinciamo». Il servizio 3 è quello in cui lavorava Tinnirello, il funzionario accusato di corruzione che avrebbe provato a chiedere ad Arata una mano per trovare al figlio un posto nel convitto dell’Università Cattolica

In ogni caso, per quanto però Nicastri suggerisca di attuare una strategia aggressiva – «andiamo dal direttore con i coltelli in mano» -, gli iter restano bloccati. Così si arriva a una fase in cui, complice anche l’arresto del re dell’eolico con l’accusa di concorso esterno alla mafia, i Nicastri iniziano a pensare di uscire dalle società interessate al biogas vendendo le proprie quote. Arata non è dello stesso parere e prova a prendere in mano la situazione, convinto di poterla spuntare con le autorizzazioni e avere tra le mani un prodotto da vendere a prezzi ben più elevati. «Sono sicuro che li recuperiamo quei soldi, certo facciamo un passo indietro, faremo una variante, ma li recuperiamo… guadagniamo», dice Arata al figlio di Nicastri. Per poi aggiungere: «Non capisco perché vuoi rinunciare adesso a prendere quattro briciole. Tolte le spese cosa ci rimane? Centomila euro? Ci può rimanere cinquecentomila euro, un milione a testa. Ti dico lo sblocchiamo, prendiamo due milioni dai due impianti». Era l’aprile del 2018, dodici mesi dopo il nome di Arata sarebbe finito sotto i riflettori, ma non come esempio di nuovo businessman


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