Se Salvatore Giuliano è il vertice, Giuseppe, Giovanni e Claudio Aprile sono i fedeli esecutori del lavoro sporco. «Quello che dici tu si fa», affermano giurano fedeltà al capo. Da qui le minacce agli agricoltori e le intimidazioni
Pachino: i fratelli Aprile al servizio del boss Giuliano L’infermiere da «scassare» e le violenze nei campi
I «carusi», ovvero i ragazzi. È così che Salvatore Giuliano e Giuseppe Vizzini chiamano i tre fratelli Aprile. Giuseppe (classe 1977), Giovanni (classe 1978) e Claudio (classe 1983), tutti e tre residenti a Portopalo di Capo Passero e tutti e tre indagati per aver fatto parte del clan Giuliano nell’ambito dell’operazione Araba Fenice che lo scorso 25 luglio ha portato in carcere 19 persone. Nella divisione interna dei ruoli del circuito criminale, «Salvatore Giuliano ne è il vertice – si legge nelle oltre 400 pagine di ordinanza siglate dalla gip del tribunale di Catania – Giuseppe Vizzini è il braccio destro e diretta emanazione delle sue volontà, mentre i tre fratelli Aprile ne sono le articolazioni operative, con compiti per lo più esecutivi».
Seguendo le disposizioni e le direttive impartite da Giuliano, sono loro a svolgere il lavoro sporco sul campo. Anzi sui campi. «Perché quello che dici tu si fa», afferma il maggiore dei tre in una conversazione intercettata. Uno dei compiti principali dei fratelli è, infatti, quello di girare a tappeto per intimorire i produttori ortofrutticoli della zona sud del Siracusano per fare in modo che riconoscano la provvigione sulla merce al gruppo Giuliano. Avrebbero dovuto agire «senza fare scruscio», ovvero senza suscitare clamore per evitare di attirare le attenzioni delle forze dell’ordine. La loro indole però sembra non rispondere alle richieste sull’atteggiamento da tenere.
A dimostrazione di ciò, uno degli episodi risale al luglio del 2015, quando il maggiore dei fratelli ha un incidente stradale. Ricoverato all’ospedale di Avola, gli vengono asportati un rene e la milza. L’8 agosto, durante la degenza, vengono intercettate una serie di conversazioni telefoniche e ambientali dalle quali si evince l’intento di vendicarsi di un infermiere in servizio che avrebbe sgarrato nei confronti di Ester, la moglie di Giuseppe, rispondendo male a una richiesta di assistenza. «Stasera lo ammazzo a questo», dice Giovanni dando sfogo al suo sentimento di vendetta che lo porta a coinvolgere anche Giuliano. «Ora lo devi scassare tutto, così imparano l’educazione», è il suggerimento del capo. Una vicenda estranea al raggio di attività illecite del gruppo, dalla quale, però, affiora il consueto metodo aggressivo fatto di minacce di morte a chiunque provi a contrastarli. A fermare la violenza di Giovanni quella sera è, da una parte, il dovere di contattare prima Giuseppe Crispino – uomo del clan Trigila che ha competenza sul territorio avolese – e, dall’altra, la telefonata del fratello Giuseppe che lo invita a desistere perché l’infermiere, resosi conto di avere a che fare con personaggi di spessore criminale, ha chiesto scusa per l’accaduto.
Un metodo utilizzato nel lavoro che viene riportato, all’occorrenza, anche nella vita privata. Intimidazioni altrettanto violente sono, infatti, quelle rivolte dai carusi nei confronti di commercianti e imprenditori, di professionisti come avvocati dediti a procedure esecutive e fallimentari o di chiunque provi a intralciare i progetti criminali. «Boom, boom, boom…non devono sapere chi è stato, devono capire solo…Guarda, sono tutta la notte in giro e fargli assaggiare un po’ di ciummo (piombo)». «C’agghia sparari! Pirchì mi sta unciannu i cugghiuna! Iu ci sparo! Iu ci sparu a chissu!» (Gli devo sparare! Perché mi sta gonfiando i coglioni! Io gli sparo! Io gli sparo a quello!). Frasi intimidatorie registrate nelle intercettazioni e rivolte a chiunque non si allinei alle richieste o a chi li faccia infuriare. Minacce per vietare la vendita di angurie o zucchine senza il loro permesso o per obbligare i produttori a conferire la merce solo all’azienda agricola Fenice srl – ufficialmente intestata a Gabriele Giuliano (figlio di Salvatore) e a Simone Vizzini (figlio di Giuseppe). Dalle minacce ai fatti, in certe casi, il passo è breve. È il caso dell’incendio all’abitazione delle persone da convincere a desistere dall’avviare una attività di parcheggio a pagamento in un terreno di loro proprietà che, fino a quel momento, ha invece assicurato introiti a costo zero al gruppo criminale.
Colpi di fucile davanti alla casa di due coniugi interessati ad acquistare l’abitazione di Vizzini, finita all’asta pubblica. Furti di imbarcazioni, macchine, mezzi agricoli, bombole di gas e rame della linea della pubblica illuminazione. Gestione di una parte del traffico di sostanze stupefacenti. Insomma, i tre fratelli fanno tutto quello che spetta a una manovalanza non troppo bassa. La fiducia di Giuliano è tale da delegarli ad andare a cercare esponenti del clan Trigila per organizzare incontri in cui discutere di spartizione di affari criminali in modo da mantenere saldi i rapporti. Lo stile di Giuliano è «la buona politica», cioè agire sempre evitando conflitti con altri gruppi criminali locali.
Lo scorso febbraio il bar Scacco Matto, di proprietà di Pietro Giovanni Spataro, il figlio dell’ex assessore e attuale consigliere comunale Salvatore Spataro, che si trova nella zona del mercato ortofrutticolo di Pachino, è stato teatro del tentato omicidio di Giuseppe Aprile. Due mesi dopo, per l’agguato è stato arrestato il 31enne pregiudicato Giovanni Vizzini. Stando a una prima ricostruzione, i sospetti della polizia si concentrerebbero su un episodio di regolamento di conti tra bande per il controllo del mercato della droga e delle estorsioni nella zona tra Portopalo e Pachino. In particolare, l’azione di Giovanni Vizzini sembrerebbe essere una risposta all’aggressione subita nella stessa sera dal padre all’interno della sua abitazione. Alcuni vicini di casa, infatti, avrebbero segnalato l’esplosione di diversi colpi d’arma da fuoco.
Inoltre, i tre fratelli nel giugno del 2017 erano stati arrestati con l’accusa di tentata estorsione aggravata nei confronti dell’onorevole dell’Ars Giuseppe Gennuso. Il parlamentare regionale e imprenditore rosolinese aveva denunciato il furto di due mezzi della sua azienda agricola e poi la richiesta di pagamento di diecimila euro per la restituzione della refurtiva. Venti giorni dopo, il tribunale del Riesame di Catania aveva disposto la scarcerazione dei fratelli Aprile.