Trent’anni da Tangentopoli e le stragi di mafia in Sicilia Uno sguardo tra ieri e oggi nelle parole di Peter Gomez

Da giovane cronista sotto la direzione di Indro Montanelli a opinionista tv e, soprattutto, direttore a sua volta di uno dei giornali online più letti in Italia: Il Fatto Quotidiano.it. Il giornalista Peter Gomez è stato ospite del gruppo Rmb, in occasione della sua presenza in Sicilia per l’edizione 2022 del Catania book festival. All’interno del quale ha presentato la ristampa aggiornata di uno dei suoi libri: Mani pulite, la vera storia, scritto con i colleghi Marco Travaglio e Gianni Barbacetto. Con le redazioni di Meridionews, Sestarete tv e Radio Fantastica si è discusso di ieri e di oggi, in un confronto tra generazioni, all’interno della trasmissione Dirett…ora d’aria

Dal 1992 al 2022: trent’anni dallo scoppio di Tangentopoli – con l’inizio di Mani pulite – e dalle stragi mafiose in Sicilia. Eventi che di solito vengono letti e raccontati separatamente. Ma condividono davvero solo la data o così si rischia di perdere pezzi importanti del puzzle della storia recente e del presente?
«È vero, ci siamo persi dei pezzi. Trent’anni fa al Nord c’era un rapporto tra imprenditori e politici o funzionari che si scambiavano mazzette in cambio di appalti. In Sicilia, invece, c’era anche un terzo soggetto, Cosa nostra appunto, con il famoso tavolino degli appalti che stabiliva una percentuale fissa sui lavori pubblici: una parte finiva alla mafia e un’altra alla politica. Ricordo che un pomeriggio di quegli anni sono andato da Antonio Di Pietro, allora il principale magistrato dell’indagine Mani pulite. Era appena stato ucciso Paolo Borsellino, con cui Di Pietro era in contatto per le tangenti pagate in Sicilia. Ricordo che disse: “Era come se io e Borsellino salissimo una scala da due lati diversi, arrivando entrambi in alto, in Svizzera. Dove trovavamo gli stessi soggetti che muovevano in maniera indifferenziata soldi da tangenti, evasione fiscale e attività di Cosa nostra, come la droga”».

Quando scoppiò Mani pulite si guardò a questo fenomeno con grande speranza. Poi, col passare del tempo, in qualche modo annacquata. A distanza di trent’anni, cos’è stata Tangentopoli?
«Sapevamo già che i politici rubassero, ma non pensavamo che lo facessero su ogni appalto. Scoprimmo che si pagava persino sulle forniture di tonno alle mense dei bambini… Quello che però allora non avevamo compreso è che c’erano due attori: noi facevamo passare gli imprenditori in gran parte come concussi, come quelli che pagano il pizzo alla mafia e non hanno alternativa. Tutte balle. La tangente di solito si aggirava intorno al 3-5 per cento e, una volta pagata, non solo si ottenevano gli appalti ma anche la possibilità infinita di rincari sul costo degli stessi. Per capirci, un chilometro di metropolitana a Milano, prima di Mani pulite, costava circa 100 miliardi di lire. Dopo l’inchiesta, costava la metà: tolto il rincaro che, alla fine, era pagato dalla collettività. In pratica rubavano troppo e sono stati beccati per quello. Quando i soldi sono finiti, gli imprenditori hanno iniziato a parlare e a denunciare i politici».

Un atteggiamento che ricorda quello della cosiddetta zona grigia della mafia: imprenditori non sempre vittima di estorsioni, ma a volte pronti a collaborare per assicurarsi un vantaggio. Allora, dopo trent’anni e l’inchiesta Mani pulite, come mai è ancora così difficile da comprendere, preferendo una narrazione mafiosa tradizionale?
«Beh, qualcosa è cambiato. Una volta era più facile essere ammazzati se rifiutavi di pagare il pizzo. Adesso le mafie sono più deboli e gli imprenditori hanno capito che, se si consorziano tra loro, è più difficile colpirli. La verità è che, come dicevate, c’è un grande vantaggio. Mani pulite ci ha spiegato che il pagamento della mazzetta faceva sì che non vincesse il più bravo o chi offriva un servizio migliore a un prezzo più basso. Gli appalti si vincevano a rotazione e, da quel punto di vista, le cose non sembrano essere cambiate. Allora c’erano circa mille aziende che vincevano gli appalti a rotazione all’Anas. Passati 15 anni, ne ho viste arrestare una cinquantina. A questo punto è chiaro che la questione riguarda innanzitutto le imprese: l’occasione fa l’uomo ladro».

Eppure qui si è sempre invidiato il resto d’Italia. Perché, si diceva, “Al Nord non è che non si rubi, però le cose si fanno. Al Sud invece no”.
«Questo è un passaggio essenziale, perché ha riguardato anche il Nord. A Milano avevamo avuto due sindaci in successione, entrambi socialisti: Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri. Quest’ultimo era anche il cognato di Bettino Craxi (ex segretario del partito socialista, condannato per tangenti e fuggito in Tunisia, ndr) e, con il suo arrivo, gli appalti si sono bloccati. Come la costruzione del teatro Strehler, che andava avanti da anni e anni. Quando è scoppiata l’inchiesta, si è scoperto che era così perché tutte le volte che ci si fermava, si rivedevano i costi. E quindi erano altri soldi e altre tangenti. La rabbia dei milanesi è stata legata anche a questo, al fatto che a un certo punto si è smesso di fare le cose».

E mentre a Milano si discuteva di appalti e tangenti, in Sicilia la mafia cambiava pelle. Totò Riina veniva arrestato e Bernardo Provenzano ascendeva. Fatti, anche questi, non del tutto slegati dalla vita pubblica del Paese. Manca però un nome all’appello: il latitante Matteo Messina Denaro. Quanto è largo questo cerchio attorno a lui che dicono di stringere da anni?
«Forse qualcuno vuole che non venga preso? È questo il sospetto di molti, perché il patrimonio di conoscenze di Messina Denaro è enorme e può mettere in imbarazzo persone che sono ancora vive. Tanta gente lo cerca, però poi durante le ricerche avvengono cose strane: spariscono computer e documenti, qualcuno viene avvertito… Messina Denaro, che non è il capo ma rappresenta ancora quella Cosa nostra diversa da quella di oggi, ha una storia di rapporti familiari, ancora indagati dalla giustizia, con la famiglia D’Alì, che ha portato anche un sottosegretario al ministero dell’Interno. Voi siciliani lo sapete: Cosa nostra non dimentica, ci sono rapporti dai nonni ai figli e con i nonni e i figli. D’altronde la mafia è mafia perché ha rapporti con la politica e le istituzioni, altrimenti sarebbe solo un gruppo di gangster come ce ne sono in tutte le grandi città. La differenza la fanno quei rapporti, oltre al controllo del territorio e al fatto che, in zone povere, la mafia si garantisce consenso sociale dando lavoro e mantenendo l’ordine pubblico dove lo Stato non riesce. Semmai è la rappresentazione dei mafiosi che passano la vita sparando e uccidendo a essere falsa, e credo che ciascun siciliano lo sappia. Se poi vogliamo discutere del mancato sviluppo, delle aziende che non migliorano perché hanno fette di mercato garantite dal politico o dal mafioso è ancora diverso…».

Ma, in definitiva, nel rapporto tra mafia e politica, chi è il vero sfruttatore? E chi ci guadagna?
«La mia idea è che Cosa nostra stia sempre un gradino sopra. Non fosse altro perché puoi discutere e trovare l’accordo, ma una delle due parti rischia che l’altra spari. Mi viene in mente un particolare: vi ricorderete che Di Pietro ebbe diverse inchieste a suo carico. Le principali vennero da un magistrato di Brescia, Fabio Salamone, che aveva una caratteristica: suo fratello era rappresentante degli imprenditori nel famoso tavolino degli appalti in cui si spartivano i soldi in Sicilia. A un certo punto Salamone, che era stato anche un giovane collaboratore di Borsellino, si trova a indagare su Di Pietro, lo stesso che aveva di fatto messo sotto inchiesta il fratello inviando gli atti in Sicilia. Questo è indicativo di come funzionano i sistemi di potere».

E a proposito di poteri: come e perché è cambiato l’atteggiamento dell’informazione nei confronti di Mani pulite?
«All’inizio giornali e tv andavano pianissimo perché erano molto condizionati dalla politica. Per diventare direttore del Corriere della sera, ad esempio, ci doveva essere l’ok di tutte le forze politiche. A un certo punto, sullo stesso quotidiano, emerge che gli imprenditori avevano mollato i politici e tutte le testate si accodano, favorendo la nascita di una grande rivolta popolare. Un avvocato racconta di essere andato ad Arcore, nella villa di Silvio Berlusconi, a capo dell’allora Fininvest, oggi Mediaset, per lamentarsi del trattamento della tv subito da un suo cliente accusato di aver pagato tangenti. Si racconta che Berlusconi lo congedò dicendo “Scusi eh, ma di là stiamo facendo un partito”. All’epoca, il suo gruppo distribuiva persino le videocassette dei processi. Ci fu insomma un liberi tutti, ma durò poco. Dopo due anni, infatti, l’inchiesta inizia a scendere di livello e arriva alla corruzione diffusa. Per capirci, una mattina arrivo al palazzo di giustizia di Milano e trovo un collega che di solito faceva tardi. Ma quel giorno mi disse: “Sono qua perché hanno arrestato mio suocero”, un commercialista che aveva pagato delle mazzette alla Guardia di finanza. Questo inizia a essere un problema, insieme alla scelta del governo Berlusconi. Le inchieste su di lui non sono iniziate dopo, come si racconta, ma quelle sul suo gruppo e su suo fratello sono precedenti e forse una delle cause della sua discesa in campo politica. Da quel giorno, nella sigla di una trasmissione condotta da Vittorio Sgarbi, i magistrati vennero rappresentati come dei maiali in toga con un coltello insanguinato. E iniziò uno scontro enorme».


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