Anima o corpo? Tra sogno e realtà

L’invenzione visiva accostata all’immaginazione. Al centro della scena e senza palco, sul pavimento coperto da un telone c’è un quadrato di terra (la nostra terra) dai contorni perfetti quasi dipinti e sulla parete retrostante uno schermo bianco immenso, accanto una porticina. Sotto sfumati chiarori si rappresenta la nostra realtà. Lo spettacolo inizia con la danza di una donna e nel frattempo le immagini proiettate sullo schermo simboleggiano le mura esterne di “Villa della Scalogna”, contornata da alberi scheletrici e situata sulla montagna di un’isola (la nostra). L’occhio, però, non può che tornare sulla scena e farsi rapire da quella donna, da ogni muscolo messo in tensione che riesce a provocare angoscia, ma anche liberazione, che da terra si solleva con le braccia protese verso l’alto, forse ad indicare o forse ad afferrare qualcosa. Si arresta la danza. Gli abitanti della villa guardano l’orizzonte, gli spettatori lo schermo, entrambi vedono arrivare gente da fuori. Ma chi sono, si domandano. Sono in otto i viaggiatori. La sala non è altro che l’interno della villa, come fossero tutti, attori e spettatori, chiusi in una “scatola”. I forestieri finalmente entrano e si guardano intorno, poi dicono: ‹‹Siamo i teatranti della “Compagnia della Contessa”, ecco qui il conte, ma senza più contea né contanti››. Gli abitanti della villa, gli “Scalognati”, osservano incuriositi. 

La contessa, Ilse, prima di diventare tale sposandosi, era un’attrice. Ella spiega agli Scalognati che la sua compagnia peregrina da due anni per teatri al fine di mettere in scena “la favola del figlio cambiato” scritta da un poeta per amor suo. L’intento di quest’uomo era riportarla a recitare. Ilse non disilluse il poeta anzi lo incoraggiò ad amarla sempre più, nonostante fosse sposata. Poi lui morì. Lei, allora, tornò a recitare per adempiere questo debito sacro che la lega indissolubilmente a quell’uomo. Il rimorso la sta logorando. La ricchezza di un tempo è andata perduta. ‹‹Non bisogna mai – gridano a gran voce i teatranti – andare contro ciò che il cuore comanda. La morte del poeta, dell’amore, sono diventati un cancro che ci sta uccidendo pian piano››.   

La contessa da lontano aveva creduto che questo fosse un teatro e non una villa abbandonata a sé stessa. E ora dove verrà messa in scena la sua opera, affinché gli uomini possano conoscerla? – si domanda disperata. Il mago “Cotrone” risponde: ‹‹certamente qui››. Gli abitanti di “Villa della Scalogna”, poveri emarginati in fuga dal mondo, appagati solo da sogni e tenui apparizioni, possono ben capire le parole di un poeta morto per amore, per pazzia. Loro, sì, che impersonano sempre un ruolo diverso, una maschera diversa. Gli uomini, no, non apprezzerebbero a dovere “la favola”. ‹‹Povera opera: come il poeta non ebbe l’amore tanto sognato – sottolinea Cotrone – così la favola non avrà la gloria dagli uomini. Non si ostini dunque ad andare in giro contessa››.

Con la struttura di apologo amaro, col febbrile confronto fra due gruppi (teatranti e scalognati) che ne regge la vicenda, “I giganti della montagna” diventa il terreno privilegiato di curiose contrapposizioni non solo teatrali, ma anche sociali e soprattutto esistenziali.  

L’ostinazione della contessa a voler recitare per un pubblico che non la sa comprendere, le figure fantasmatiche fuori dal corpo e dalla realtà, il corpo che è terra e pietra (il quadrato di terra – la nostra – non ha più i contorni perfetti, si è scomposto), l’eros, il pathos, il sogno, la “pazzia” che non uccide la naturale vivacità presente negli uomini, caricano ogni battuta del dramma di valenze crudelmente allusive e metaforiche. Forse se imparassimo ad accettare e a custodire il “figlio cambiato”, un po’ bruttarello e malaticcio, forse se riuscissimo ad accettare la semplicità, senza rincorrere onori e glorie, allora si riuscirebbe ad uscire dalla tragicità della vita. Solo così forse l’anima resterebbe libera e ingombra da tutti quegli impacci che la soffocano. Tutte riflessioni queste che lasciano spazio a domande e a risposte incompiute. 

“L’uomo vive nel sogno – scriveva Platone – e la poesia senza delirio non è poesia”.

Viviamo nei nostri sogni e “ restiamo incompiuti, come i Giganti, impauriti ma speranzosi dell’alba che viene, convinti che l’incompiutezza in limine mortis sia l’ultimo grande dono di Luigi Pirandello”, scrive Giovanni Spadola.


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