«No ai ceri, ricordate Andrea Capuano vittima dei ceri». Questo era il messaggio affisso davanti all’ingresso dell’orto botanico in via Etnea, il luogo dell’incidente che gli costò la vita. Sei anni dopo la sua morte, la notte del 5 febbraio, vicino a quel punto, nonostante il divieto comunale, un devoto di sant’Agata appoggia il suo torcione acceso al marciapiede e lascia colare la cera sull’asfalto. «Andrea è martire della cera e dell’ignoranza di certi devoti», dice a MeridioNews il fratello maggiore, Damiano.
Nella ricostruzione dell’incidente stradale, avvenuto il 10 febbraio 2010, il motorino condotto dal ragazzo: «Sbanda su una chiazza di cera, rimasta sulla strada dopo la processione del giro interno» racconta il parente. «È un voto fatto a sant’Agata per una grazia ricevuta. Non posso cambiarlo», sostiene Francesco, 33enne devoto. È suo il torcione, immortalato nella fotografia, che gronda sull’asfalto: «Sciolgo la cera perché la chiesa non possa riciclarla dopo l’offerta, e guadagnarci». «È egoista, insensato; è da animali dimostrare la propria devozione fregandosene delle conseguenze per gli altri – si arrabbia Damiano – In Sicilia altri santi vengono onorati senza l’offerta della cera. E non credo che ascoltino i loro fedeli meno di sant’Agata».
Dalla morte di Andrea, ogni anno, in previsione della processione del 5 febbraio è la nonna 78enne a deporre un ricordo nel luogo dell’incidente. Stavolta è stato distrutto: la scritta strappata, la foto gettata a terra, il cuscino di fiori saccheggiato. Il Comune di Catania – citato in tribunale dalla famiglia Capuano – invece firma un’ordinanza contro l’accensione dei ceri: «Nessuno ci ha fermato. Né vigili né polizia. Nessuno ci può fermare, la devozione è più forte dei divieti», dice Francesco. E Damiano punta il dito contro i vigili urbani e il sindaco Enzo Bianco: «Se non è fatta rispettare, l’ordinanza è inutile. Serve solo a scaricare la coscienza e le responsabilità legali di chi la firma».
Francesco sa dell’incidente avvenuto, sei anni prima, proprio dove sta colando il suo torcione. Ma, secondo lui, «la colpa non è dei devoti. È degli operai del Comune, che non puliscono bene le strade». I giorni seguenti alla processione, le vie toccate dal percorso del fercolo – e dai portatori dei torcioni – vengono chiuse per rimuovere la cera. E l’amministrazione informa della rapidità con cui avvengono i lavori: «È incoerente vantarlo come un successo per nascondere il fallimento dell’ordinanza – commenta Damiano – Se fosse stata fatta rispettare, dopo cinque giorni non ci sarebbe ancora cera da rimuovere. Né soldi dei cittadini da buttare per questi lavori».
Per risolvere la faccenda, i portatori di cera propongono la loro soluzione al Comune: «Creare un corridoio recintato pieno di segatura, lungo il percorso, in cui trasportare i torcioni», dice Francesco. Il rimedio di Damiano, invece, coinvolge la chiesa catanese: «Permettere l’accensione dei ceri solo in piazza Duomo o dentro la cattedrale. E poi ci pensi la curia a ripulire». Nella gerarchia delle responsabilità che hanno portato alla morte di Andrea – secondo il fratello maggiore -, dopo i devoti che non rispettano l’ordinanza, e chi non la fa rispettare, viene l’arcivescovo Salvatore Gristina: «È assente, non prende posizione contro la cera. Gli ho scritto più volte. Non mi ha mai ricevuto né risposto».
La memoria di Damiano, infine, torna ancora a quel 10 febbraio 2010. Erano le 13.45. Andrea risaliva via Etnea sul suo motorino. «Indossava il casco, non correva, stava andando dalla fidanzata – ricorda il fratello – È scivolato su una chiazza di cera larga quanto l’intera carreggiata. È finito contro l’auto guidata da un diversamente abile, che procedeva in direzione opposta. È morto dopo quindici giorni di agonia». Ma ciò che più fa rabbia al fratello maggiore, ora 30enne, è «che Andrea sarebbe stato felicissimo di conoscere sua nipote, nata due anni e mezzo fa. E mia figlia lo sarebbe stata di conoscere suo zio. Un ragazzo sempre sorridente e felice».
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