Domani, con tre proiezioni a partire dalle 17, il Cinestudio di Catania dedica una rassegna a Daniele Gaglianone, cineasta marchigiano di nascita e piemontese di adozione, autore di film spesso trascurati dalla critica e dal pubblico perché schietti e anticipatori. «Forse non è colpa mia, ma del Paese in cui viviamo»
Al King il regista della sincerità Ritratti cupi di un’Italia in crisi
Tre pellicole attraverso cui mostrare la realtà cupa dellItalia, la guerra, lemarginazione. Sono le protagoniste della rassegna Lo sguardo ruvido: il cinema di Daniele Gaglianone, organizzata dal Cinestudio, che domani vedrà ospite al multisala King il regista italiano, autore di documentari e lungometraggi di fiction, come I nostri anni del 2001 e Nemmeno il destino del 2004.
Si parte alle 17 con Rata Nece Biti!, presentato al 61° Festival di Locarno e vincitore del premio speciale della giuria al 26° Torino Film Festival. Alle 20.15 sarà la volta di Pietro del 2010 e a seguire, alle 22.15, Ruggine, con Filippo Timi, Stefano Accorsi, Valerio Mastrandrea e Valeria Solarino, tratto dallomonimo romanzo di Stefano Massaron e presentato questanno alla Mostra del cinema di Venezia.
All’ inizio e alla fine di ciascuna proiezione il regista incontrerà il pubblico. Ecco qualche anticipazione.
Il titolo della rassegna è Lo sguardo ruvido. Perché il suo è un modo di fare cinema schietto e senza retorica. Chi sono i suoi maestri?
«Sicuramente Paolo Gobetti, il figlio di Piero. Era il nostro punto di riferimento quando lavoravo allArchivio nazionale cinematografico della Resistenza di Torino. Paolo lo aveva fondato, lo presiedeva, era lì tutti i giorni e stando al suo fianco ho imparato a considerare le cose senza paura e senza opportunismi».
Nei suoi film infatti cè una sincerità spesso dolorosa. E il dolore stesso è uno dei protagonisti. Quello provocato dallemarginazione come in Pietro, dalla guerra in Rata Nece Biti! o da un tragico evento dellinfanzia in Ruggine. Che rapporto cè per lei tra il dolore e la verità? È un mezzo per raccontarla?
«Essere consapevoli della propria e altrui condizione è un processo difficile. Rendersi conto di dove uno sta, può essere una presa di coscienza dolorosa. A volte può essere più comodo adagiarsi su una situazione brutta in cui si sta male, ma che comporta in qualche modo chiarezza. Uscire invece da quella condizione significa fare un salto, decidere di superare una soglia. E spesso i personaggi che cerco di raccontare si trovano proprio ad un limite e devono fare una scelta: se cercare di andare oltre oppure restare schiacciati da quel limite».
Attraverso questi personaggi e le loro storie vengono fuori anche dei ritratti attendibili del nostro Paese, cupo e insensibile. Lopposto dello stereotipo italiano.
«I miei film purtroppo hanno il problema di essere troppo schietti su alcuni aspetti e forse troppo anticipatori. E non perché io sia Nostradamus. Ad esempio, sette anni fa, quando ho girato Nemmeno il destino, cerano già dei segni di cosa sta succedendo adesso, ma nessuno aveva voglia di vederli. I personaggi si muovevano in un Paese completamente disorientato e in crisi: quando uscì quel film questa cupezza e questa sfiducia mi furono rimproverate. Il tempo poi purtroppo mi ha dato ragione. Anche Pietro è un film sempre più attuale. Però forse non è colpa mia, è colpa del Paese in cui viviamo».
I suoi film hanno ricevuto riconoscimenti importanti. Eppure vengono trascurati dalla critica e dal pubblico italiani. Non piace che lei li metta di fronte a questa realtà?
«Una delle migliori recensioni che io abbia ricevuto mi è stata riferita dal critico siciliano Franco Marineo, che ha chiesto a un amico che era a Locarno cosa pensasse del film Pietro, che lui non era riuscito a vedere. Questa persona gli ha detto: È un film che prende lItalia per la gola e per questo motivo lItalia non lo capirà. E forse è proprio così. Probabilmente è per questo che dalla critica vengo rispettato e stimato però, essendo lontano anche dagli stereotipi del cosiddetto cinema non conformista, non sanno bene dove mettermi. Per quanto riguarda il pubblico, il discorso è diverso. È chiaro che se un film esce il 20 agosto e un altro il 3 settembre, in piena estate, non è difficile trovare le sale piene solo per me. Mi piacerebbe capire quanto effettivamente si ha voglia di rifiutare pellicole come queste, se solo venissi messo nelle condizioni di confrontarmi in modo decente con gli spettatori».
Le sue opere infatti restano pochi giorni nelle sale.
«Io posso dirle che a Torino funzionano. Qualcuno potrebbe dire che è perché è la mia città, ma tremila persone che vanno a vedere un mio film non sono tutti amici miei».
Giona Antonio Nazzaro nella sua recensione a Pietro ha scritto che, se il suo modo di fare cinema e i suoi lavori fossero amati e compresi dal pubblico italiano, non vivremmo in Italia ma in un altro Paese più civile e più giusto. È un problema di periodo storico secondo lei?
«Una frase del genere non posso né dirla né pensarla, ma mi fa piacere che qualcuno lo abbia fatto. È una riflessione bella e amara allo stesso tempo. Forse ha ragione. Io so soltanto che faccio dei film che alcuni accolgono storcendo il naso, ma magari se venissero fatti in Paesi più o meno esotici, quegli stessi critici impazzirebbero e direbbero che film così in Italia nessuno li fa. Ricordo quando è uscito Nemmeno il destino, molti si sono chiesti perché parlare ancora delle fabbriche, della crisi. Dicevano che a Torino non era così. Adesso è più facile trovare un cassintegrato rispetto a uno che lavora. E vedremo come sarà tra qualche mese».