Affidi, le storie di chi ha accolto un minore straniero «Non sapeva che in Italia alla sua età non si lavora»

«Vuoi venire a vivere con noi per sempre?». Quando ad Amara viene posta questa domanda, la sua risposta affermativa è talmente rapida che Sonia non riesce neanche a completarla. Lui è poco più un ragazzino, è arrivato a Palermo a maggio 2014, in uno dei primi sbarchi che la città ricorda. Lei è un assistente sociale, con due figli di 26 e 21 anni e un compagno che a sua volta ne ha un altro di 29. Si sono incontrati lì, sul molo. E da allora non si sono più lasciati. Sonia è una delle tante persone, 229 solo nel 2016, che ha scelto di diventare affidataria di un minore straniero non accompagnato. E ora ha deciso di raccontare la propria felice esperienza, per incentivare altri a ripeterla, come racconta nella sala colma di gente del Servizio Affidi in piazza Noviziato.

«Amara era il più piccolo di 42 minori – dice con voce ancora commossa al solo ricordo -. Aveva 12 anni, compiuti durante la traversata lunga due mesi tra deserto e mare. Questo fatto mi ha allarmato, è partito dal suo Paese che aveva solo 11 anni. Veniva dal Mali e parlava solo francese. Ho pensato subito che se fosse stato mo figlio avrei voluto che qualcuno si occupasse di lui». Così Sonia pensa subito di occuparsi di lui. Sa che però è necessario un percorso graduale, e per sei mesi con Amara si incontrano solamente nei fine settimana. Ma ormai il rapporto affettivo è nato, e anzi col tempo si fa sempre più intenso. «Lui non ha i genitori ma ha tre fratelli più piccoli, a 11 anni era diventato il capofamiglia. Aveva provato a lavorare come lustrascarpe, ma poi ha saputo dei viaggi in Europa ed è voluto partire, per dare un futuro ai fratelli. Quando è arrivato qui – continua la donna – nessuno gli aveva spiegato che in Italia alla sua età non si lavora, ci era rimasto pure male. Noi invece ora per lui vogliamo il futuro migliore, ma prima deve laurearsi». Oggi Amara ha 15 anni. Non è più silenzioso come un tempo, anche se «è chiaro che i suoi musi a volte sono pesanti, ma è quello che accade con ogni adolescente», e come tanti ragazzi della sua età aspira a fare il calciatore. «Per lui abbiamo vinto una battaglia legale – spiega Sonia – perché Amara poteva allenarsi ma non poteva giocare, visto che non lo facevano tesserare».

Un’altra storia che colpisce la platea è quella di Anna. Soprattutto il trasporto col quale parla di Mohammed. «L’ho incontrato a un convegno – racconta la signora – ed era lì messo in disparte, educato e gentile. Appena gli ho chiesto della sua famiglia dal volto sono spuntate alcune lacrime. Abbiamo parlato un poco, poi la sera lui mi ha scritto un messaggio in cui mi diceva che era stato davvero felice di raccontarsi. Così è nata una bellissima amicizia». Un crescendo di affetto, con Mohammed che grazie ad Anna scopre nuovi mondi. «Nella mia pausa pranzo andavo a trovarlo in comunità – racconta -, poi pian piano ho cominciato a farlo uscire, lo portavo a mangiare il panino con la milza o un gelato. E poi è venuto a stare con me nei weekend, nella mia casa a Trapani. È in quel periodo che ho deciso di avviare le pratiche per l’affidamento. Mohammed sa che per lui ci sono sempre».

Ci sono poi intere famiglie che hanno deciso di portare la propria testimonianza felice di integrazione. Come quella di Giusy, che racconta di quando conobbe Muntà «un anno fa, lui aveva 17 anni e il suo chiodo fisso era che alla maggiore età avrebbe dovuto andar via». Dalla comunità, dalla Sicilia, dalle persone che come Giusy lo hanno subito accolto. «La vera integrazione è solo nel confronto tra culture diverse – dice la donna -. Ci stiamo godendo questo scambio. Certo, ci sono cali di umore e difficoltà, ma si va avanti. All’inizio avevamo pure qualche dubbio, spinti anche dai commenti dei parenti e dei vicini. Ma oggi posso dire che l’accoglienza è la più alta forma di umanità». 

Muntà ascolta «mamma Giusy», come la chiama spesso, e quando riesce a superare la timidezza il suo racconto diventa un fiume in piena. «Per mesi sono stato parcheggiato in comunità» racconta, in un italiano che si fa via via più spigliato. «Non parlavo italiano e non capivo nulla, mi sentivo inutile: mangiavo e dormivo, mangiavo e dormivo e basta. Poi è arrivata mamma Giusy, quando l’ho conosciuta non ero capace di guardarla negli occhi. Non mi piaceva studiare, volevo solo giocare a calcio. Ora invece la aiuto in casa, coi suoi figli che sono i miei fratelli e le mie sorelle, a me piace stare coi bambini». Giusy lo guarda fiera e commossa, e conferma: «È stato un esempio per le mie figlie. In lui c’è tanta rabbia che riesce a trasformare in amore».


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