Acqua, questa sconosciuta

Scheda rossa per decidere se abrogare la legge che consente di affidare la gestione dell’ acqua a operatori privati. Scheda gialla per decidere se abrogare la legge che permette, a chi eroga acqua potabile, di stabilire le tariffe in base a logiche di mercato. Dei quattro referendum sui quali si voterà il 12 e 13 giugno, i due che riguardano l’ acqua sono probabilmente quelli su cui in Italia c’è meno informazione. Ma non per questo sono meno importanti degli altri due (nucleare e legittimo impedimento). L’Italia non è il solo paese in Europa ad interrogarsi sulle questioni della fornitura idrica. Altrove, la privatizzazione non si è dimostrata né il metodo più efficace, né quello capace di abbattere i costi del servizio. Come vedremo, i casi virtuosi – come quelli svedese e olandese – sono quelli in cui il regime di gestione dell’acqua è stato accompagnato da misure mirate ad aumentare l’“accountability” dei sistemi di gestione, cioé il dovere di rendere conto del proprio operato e di risarcire i danni provocati alla collettività in caso di cattiva gestione.

Negli ultimi decenni, in Europa si è assistito ad una tendenza verso la decentralizzazione dei servizi idrici, cioé la devoluzione di poteri e responsabilità di competenze di policy dal livello nazionale al livello locale. Dunque, anche in Italia gli amministratori locali hanno voce in capitolo sulla gestione di tali servizi. In Italia, però, la linea del Governo in materia di nucleare ed in materia di gestione dei servizi idrici non è stata accolta con grande entusiasmo dagli amministratori del PDL.

Sul territorio si è invece prodotta un’imbarazzante confusione tra militanti e dirigenti del PDL. Da una parte, alcuni militanti del partito hanno seguito ciecamente le indicazioni del Presidente del Consiglio. Dall’altra, il gruppo dirigente diffuso si è ripetutamente espresso in senso contrario. Contro la privatizzazione dell’acqua si sono espressi non solo gli amministratori locali della Lega o della destra italiana, i quali hanno apertamente preso le distanze dalle posizioni del Governo. Anche tanti amministratori locali, Sindaci Presidenti di provincia, hanno detto a chiare lettere no alla privatizzazione dell’acqua.

E’ successo sin dall’agosto dello scorso anno, quando la regione Lombardia ha dichiarato la sua intenzione di procedere con legge regionale alla privatizzazione dei servizi idrici (acquedotti, fognature, depuratori). In quell’occasione, mentre i cittadini iniziavano a storcere il naso, la ex Sindaco PDL Letizia Moratti si affrettò a stroncare la proposta affermando che “l’acqua di Milano rimarrà pubblica”. Non solo: il provvedimento con cui la Regione Lombardia voleva privatizzare il servizio idrico si è scontrato con amministratori locali del Pdl come Attilio Fontana, sindaco di Varese e presidente dell’Associazione dei Comuni della Lombardia, oltre che con i comitati di
cittadini che spontaneamente erano già scesi sul piede di guerra.

Per non parlare di quei comuni, come Aprilia, dove il centrodestra era riuscito ad affidare ai privati la gestione dell’acqua, facendo della privatizzazione un vero e proprio manifesto di New Public Management. In quell’occasione, la gestione privata ha retto meno di due anni. Lo scorso aprile, il Consiglio comunale di Aprilia ha votato a larghissima maggioranza (22 sì contro 4 no) una delibera che obbligava di fatto la società Acqualatina a restituire gli acquedotti alla gestione pubblica. La gestione del servizio idrico è tornata così ad essere amministrata dal Comune dopo che le tariffe ai cittadini avevano subito un’impennata di oltre il 50%.

Ma allora, cosa bisogna fare per garantire che si abbattano i costi della gestione dei servizi idrici, garantendo la massima qualità di tali servizi erogati e la trasparenza gestionali? I comuni d’Europa hanno dato risposte diverse a questa domanda.

La privatizzazione non è stata la sola ricetta proposta per raggiungere questo scopo, anche perché, in diversi casi, il ricorso ai privati ha portato ad inefficienze e aumento dei prezzi. Infatti, in diversi paesi, come il Regno Unito e la Francia, la privatizzazione non ha sortito gli effetti sperati. Nel Regno Unito, in cui si è optato per una commistione tra pubblico e privato nella gestione delle risorse idriche e degli acquedotti, la privatizzazione ha portato un aumento dei costi del servizio. Tra il 1991 e il 1992, il numero dei consumatori a cui è stato interrotto il servizio, perché incapaci di pagarlo è, conseguentemente aumentato del 200%. In Francia la privatizzazione – dominata da tre grandi conglomerati privati, Vivendi (precedentemente Générale des Eaux), Suez-Lyonnaise des Eaux e SAUR/Bouygues – è stata bastonata ripetutamente dalla Corte dei Conti francese. Ad esempio, nel 1997 la Corte dei Conti ha denunciato l’alto livello di concentrazione, la conseguente “competizione organizzata” e l’elusione delle regole della concorrenza tramite “l’uso ripetuto di procedure negoziate”. Ma non si privatizzava per aumentare la concorrenza?

I casi più virtuosi sembrano dunque essere quelli che hanno mantenuto pubblico il servizio, ma hanno ridotto gli utili, investito in sviluppo e applicato il principio del “chi sbaglia paga”. Questo è, ad esempio, il caso dei Paesi Bassi. In Olanda, la gestione dell’acqua è affidata a public limited companies, i cui azionisti sono per lo più municipalità e, in alcuni casi, province. L’industria olandese dell’acqua risulta competitiva anche in relazione ad altri indicatori di performance: si è impegnata in iniziative environmentally-friendly, come il monitoraggio di sostanze nocive e
la riduzione dell’inquinamento. Servizio pubblico, dunque, ma chi sbaglia paga. Ad esempio, l’Amministratore Delegato di queste compagnie gode di ampie libertà, ma è responsabile delle perdite causate. Non solo: il sistema olandese consente ai cittadini di dire la propria sulla gestione dell’acqua, tramite la rappresentazione degli interessi dei consumatori attraverso organi eletti a livello locale.

Risultato? Il rispetto di costi limitati è applicato pienamente, un fatto che non ha impedito di investire in programmi di sviluppo e rinnovamento. Però c’è un però. Molto spesso le compagnie non ricavano grandi profitti, a causa del limitato interesse degli azionisti pubblici nel massimizzare il ritorno dei propri investimenti e della pratica di restringere il pagamento dei dividendi. Dunque, efficienza sì, ma non accumulazione di profitti.

Come nel caso olandese, anche il modello svedese è considerato un modello virtuoso. In Svezia, le infrastrutture idriche sono per la maggior parte compagnie municipali. Alcune di esse sono per statuto public limited companies. In generale le compagnie svedesi vantano costi operativi molto bassi e alte performance, che escludono l’accumulo di grandi profitti. Il modello municipale svedese dimostra che le forniture pubbliche di acqua sono altamente competitive dal punto di vista degli standard qualitativi e ambientali, ma anche dal punto di vista degli indicatori economici e finanziari. Nel 1995, la Stockholm Vatten ha avviato una massiccia ristrutturazione finalizzata ad aumentare l’efficienza operativa e lo sviluppo sostenibile di lungo periodo. Al tal fine, si è puntato alla copertura dei costi piuttosto che all’ottimizzazione del profitto. Questo ha garantito di liberare le risorse necessarie per il miglioramento della qualità dell’erogazione dell’acqua e per i servizi di impatto ambientale.

Questa breve rassegna dimostra che esistono diverse ricette per rendere efficiente la gestione delle risorse idriche. Altrove si sono interrogati a fondo sulla questione, coinvolgendo i cittadini nelle decisioni da prendere. Il recente pronunciamento dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) ai danni della RAI, dimostra che in Italia, in vista dei referendum, non sta accadendo nulla di simile. Il silenzio sui referendum ha impedito che i cittadini prendessero visione delle alternative possibili e si concentrassero sul vero nodo del problema: qual è il progetto dell’Italia sui servizi pubblici locali?


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