Giarre, confermate due condanne per estorsione mafiosa «Denuncia tempestiva dell’imprenditore l’ha reso possibile»

La terza sezione penale della Corte d’Appello di Catania ha condannato il 29enne Tiziano Russo e il 55enne Francesco Messina per il reato di estorsione aggravata dal metodo mafioso a quattro anni, sei mesi e venti giorni di reclusione il primo e a sei anni il secondo e a una multa di mille euro. Entrambi, inoltre, sono stati condannati anche al pagamento delle spese sostenute dalle parti civili nel processo: la vittima, l’imprenditore Tonino Torrisi, assistito dall’avvocato Gianfranco Li Destri, il Comune di Giarre e l’Asaec, l’associazione antiestorsione di Catania Libero Grassi.

Dopo la condanna con il rito abbreviato a cinque anni per Roberto Bonaccorsi, considerato vicino al clan Santapaola-Ercolano, nel marzo del 2021 Russo e Messina erano stati condannati in primo grado ma avevano fatto appello. Adesso è arrivata la sentenza di conferma. «Denunciare conviene sempre – è il commento del presidente dell’Asaec Nicola Grassi – Ma quando, come in questo caso, lo si fa in maniera tempestiva si permette anche alla giustizia di essere più efficace». Nell’ottobre del 2018 l’imprenditore giarrese era rimasto vittima di un pestaggio. Poco prima Russo, che si trovava ai domiciliari, gli aveva chiesto l’amicizia su Facebook a Torrisi per poi mandargli un messaggio nella chat di Messenger e invitarlo ad andare a trovarlo a casa con la scusa di chiedergli un favore.

Arrivato sotto i palazzoni del quartiere Il ghiaccio, vicino alle case popolari di via Trieste, la vittima viene accolta con pugni e schiaffi da Russo e Messina. «Da ora in poi mi devi portare mille euro al mese, 50mila euro di arretrati e il due per cento delle costruzioni che stai facendo». Una richiesta estortiva che i due avrebbero avanzato, secondo la procura, in quanto appartenenti al clan Laudani. Durante il dibattimento, Messina ha sostenuto che si trovava lì per caso, mentre Russo si è sempre difeso riconducendo il pestaggio a questioni personali: in particolare, facendo riferimento a un messaggio che Torrisi ha mandato di notte a sua moglie su Messenger. Due battute sulla difficoltà a prendere sonno che l’imprenditore aveva scambiato oltre un mese prima con la donna.

Qualche giorno dopo, in virtù di una vecchia conoscenza, era stato Roberto Bonaccorsi a telefonare all’imprenditore per proporsi come mediatore. Dalla proposta alla minaccia il passo è breve. «In tutti questi anni ti sei fatto i cazzi tuoi, non hai portato soldi a nessuno e quindi ora si cambia». Per convincere Torrisi a pagare, Bonaccorsi gli prospetta anche cosa sarebbe accaduto se si fosse rifiutato: lo avrebbero «ammazzato di botte ogni giorno». Torrisi, che oltre a essere un costruttore è anche titolare di diversi esercizi commerciali, consegna una prima rata del pizzo da duemila euro, ma è già sotto la protezione dei carabinieri a cui si è rivolto per sporgere denuncia. Da lì a poco, i militari arrestano i tre imputati. Prendendosi tutta la responsabilità della vicenda – che per l’avvocato che lo difende sarebbe stata non un’estorsione ma, tutt’al più, una truffa – durante le dichiarazioni spontanee in udienza, Bonaccorsi ha chiesto «scusa a Tonino Torrisi nell’amicizia che avevamo». Un presunto ravvedimento funzionale, però, a chiedere una sorta di bonaria compensazione (duemila euro per i danni subiti in cambio della costituzione di parte civile) subito respinta dal legale della vittima. 


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