Se n'è andato così, a 79 anni, quello che per molto tempo è stato considerato il nuovo Buscetta. Tante le rivelazioni, dai suicidi/omicidi agli intrecci con la P2. «Mi ero sentito così libero a non avere più a che fare con queste cose, con questi soggetti», raccontava ai processi
Mafia, il Coronavirus stronca Francesco Di Carlo L’ex boss di Altofonte morto stanotte in Francia
Il Covid-19 non guarda in faccia proprio nessuno e, tra le numerose vittime che ha già portato con sé, da stanotte c’è anche Francesco Di Carlo, l’ex boss di Altofonte che negli anni ha raccontato parecchie cose sui segreti di Cosa nostra. Muore a 79 anni nell’ospedale parigino in cui era ricoverato da marzo, stroncato dalle conseguenze del virus lui che era fuggito a vendette e ritorsioni. Lui che è scampato, in qualche modo, all’odio degli ex sodali generato da quella trasformazione nel nuovo Buscetta, dopo la sua decisione di collaborare con lo Stato nel ’96.
«Non mi piaceva più quello che Cosa nostra era diventata». È per questo che, dopo la sua ascesa criminale dentro l’organizzazione, il boss si era dimesso. Affiliato un sabato pomeriggio del maggio 1961 alla famiglia di Altofonte, svolge per quindici anni la mansione di soldato semplice, nel ’70 diventa poi consigliere e cinque anni dopo capo famiglia. Ma la sua militanza, di fatto, dura poco e nel ’79 saluta tutti con un arrivederci. «Non mi piaceva più come si comportava il mandamento e alcune persone della famiglia, Bernardo Brusca era una vittima di Totò Riina, Bagarella andava girando sempre per vedere se c’era da ammazzare qualcuno, come fossero stati polli da macellare, non mi piaceva». L’ex boss di Altofonte lo ha raccontato, un anno fa, parlando per oltre quattro ore al processo per calunnia aggravata contro i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo.
Tuttavia, non riesce a voltare subito le spalle all’organizzazione. E formalmente resta fino all’82 circa. Due anni prima diventa latitante fino all’85, «ma comunque usavo sempre il mio nome, avevo a Londra un wine bar». È uno, Francesco Di Carlo, che di cose da raccontare ai giudici, negli anni, ne ha avute parecchie. Dall’omicidio di Roberto Calvi, dal quale ha sempre allontanato le accuse chiamandosi fuori, agli intrecci fra la P2 e Cosa nostra siciliana («non poteva succedere che entrasse la massoneria a Palermo e provincia. Ad Agrigento, Caltanissetta, Trapani magari sì, a Palermo no»). Fino ad alcuni suicidi/omicidi, come li chiama lui, come quello di Nino Gioè, anche lui boss di Altofonte trovato impiccato nel braccio di sicurezza di Rebibbia una notte di luglio del ’93, a pochi metri da Totò Riina, detenuto in una cella vicina. E quello anche del maresciallo Mario Ferraro, che la moglie trova impiccato nel bagno di casa. Ma non c’è solo il nome di questo funzionario dello Stato, nei suoi racconti. Al suo, si aggiunge anche quello di Arnaldo La Barbera.
Uno di quelli che avrebbe raccontato a Di Carlo che Falcone «era un pericolo, lui e anche Borsellino». Motivo per cui certi funzionari cercavano un contatto con Cosa nostra. «A quei tempi la Sicilia era controllata da Cosa nostra centimetro per centimetro, qualunque cosa fatta da chi non era di Cosa nostra lo venivamo a sapere, un omicidio in Sicilia poteva farlo solo Cosa nostra, perché se lo fa uno che non ne fa parte si cerca subito ‘pa ammazzarlo, la polizia a Palermo lo sapeva, lo sapevano tutti, carabinieri, servizi segreti, tutti. Il colonnello Russo è stato ammazzato perché durante il tentativo di prendere un estorsore ad Altavilla, aveva per sbaglio ucciso un suo collega carabiniere, ma poi aveva dato la colpa di quell’omicidio al presunto estorsore che non c’entrava niente, non è stato onesto. Quindi doveva essere punito».
È sempre lui che racconta dell’obiettivo di allontanare a tutti i costi Falcone e i suoi uomini più vicini, «anche screditandoli. Mi ricordo delle lettere anonime che parlavano male di Falcone e della voce messa in giro da Cosa nostra che quella bomba all’Addaura se l’era messa da solo». «Ma Cosa nostra non fa niente per niente», sottolinea Di Carlo. Intanto, se lui dal carcere si fosse adoperato per dare loro una mano, in cambio avrebbe ottenuto un riavvicinamento con l’organizzazione mafiosa. «Ma io tutto questo piacere di rientrare non ce l’avevo, mi ero sentito così libero a non avere più a che fare con queste cose, con questi soggetti. “Non siamo per arrestare”, mi dicono però i quattro funzionari, “noi abbiamo interessi in altre cose, dacci una strada giusta e ti promettiamo che i processi vanno bene, se no non avete scampo con questi magistrati”».