Salvo Bella ha lavorato per anni nella redazione del quotidiano etneo come esperto di criminalità organizzata e cronaca nera. Si è dimesso senza preavviso nel 1997 e ha lasciato Catania perché «non c'erano più le condizioni per il libero esercizio della professione di giornalista». Al suo ex editore-direttore, oggi indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio, non rimprovera pressioni ma una serie di scelte che, per il cronista, sarebbero collegate alle intimidazioni di Cosa nostra da lui subite
Ciancio, parla un ex cronista de La Sicilia «Inchiesta chiusa dopo le minacce mafiose»
«Con tutta sincerità, uno dei rari meriti che ho sempre riconosciuto al direttore Mario Ciancio è che non esercitò mai su di me alcuna pressione per condizionare il contenuto dei miei servizi». I lettori de La Sicilia, almeno quelli meno giovani, forse ricordano ancora la firma di Salvo Bella. Cronista di nera del quotidiano etneo, autore di numerosi articoli sulla criminalità organizzata a Catania e provincia, si è dimesso senza preavviso nel 1997, dopo trent’anni di lavoro in redazione, e ha lasciato la città. «Dal giornale erano stati costretti ad andar via i maestri – racconta oggi – Io, l’ultimo rampollo, mi trovavo a dover prendere ordini persino da uno dei vari infiltrati della mafia che l’azienda teneva inopportunamente in grembo». Un giovane cronista, ricorda Bella, «appena praticante, di cui carabinieri e polizia perquisivano spesso l’abitazione perché conviveva con una parente del boss Santapaola». L’indagine per concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio a carico del direttore-editore etneo Mario Cancio – che dovrà terminare entro la metà di aprile, per disposizione del gip che non ha accolto la richiesta di archiviazione avanzata della procura – non lo stupisce. E nemmeno il comunicato diramato dalla redazione del quotidiano in cui i suoi ex colleghi dichiarano di non aver mai subito pressioni sul contenuto dei propri articoli. I problemi del giornale La Sicilia, secondo Bella, sarebbero altri.
Come cronista di nera, esperto di mafia, negli anni catanesi ha subito spesso minacce e danneggiamenti. Case, auto, animali da compagnia sono stati i bersagli delle intimidazioni usate per spaventare il giornalista. Eppure lui, racconta, continuava a scrivere e il giornale a pubblicare. Pochi, nella memoria di Bella, sono stati i casi che lo hanno impensierito. Pochi, ma importanti. Come la mancata cattura, a Catania, del boss Benedetto Santapaola. «Compromessa precedentemente dalla divulgazione di una foto riservatissima che La Sicilia mi costrinse a pubblicare sebbene avessi per giorni avvertito della mancanza di interesse per fini di giustizia, nonché dei pericoli gravi che ne sarebbero scaturiti», spiega. Un caso simile a quello della pubblicazione, sempre da parte del quotidiano etneo, di dati riservati di un collaboratore di giustizia appena prima della sua deposizione ai magistrati nelle indagini per l’omicidio del giornalista Giuseppe Fava.
Ma un caso, più degli altri, ha convinto Salvo Bella a rinunciare e a trasferirsi a Cerro Maggiore, in provincia di Milano, dove oggi è direttore editoriale della casa editrice Edicom. «Nel 1987 conducevo per il giornale una inchiesta sulla mafia a Catania e provincia, voluta dal direttore, che la annunciò in 72 pagine, che sarebbero uscite due volte la settimana». Un lavoro imponente e ben confezionato, ricorda Bella, servito da spunto di approfondimento anche alla commissione parlamentare antimafia. «I miei servizi portarono all’apertura di inchieste giudiziarie o alla loro riapertura, a carico di malavitosi e anche personaggi con importanti ruoli di potere, come l’allora presidente della Provincia regionale di Catania Salvatore Di Stefano», dice ancora soddisfatto, ma amareggiato per come andarono le cose.
Alla quarantottesima pagina del lavoro, infatti, qualcosa si inceppa. «Il giornale, che non aveva mai ricevuto alcuna smentita né sapeva da parte mia delle minacce che ricevevo, cominciò improvvisamente a pressarmi perché concludessi subito anticipatamente quella inchiesta per ragioni editoriali che non mi furono mai spiegate». Al rifiuto del cronista seguono nuove minacce. La sua casa di Belpasso viene distrutta da un attentato incendiario. Le indagini della procura accerteranno poi che si tratta di una vendetta da parte di esponenti di Cosa Nostra. «Il giornale non volle pubblicare la notizia dell’accaduto e lo fece solo a distanza di parecchi giorni ricorda Salvo Bella – Solo a seguito di una espressa richiesta del magistrato (Amedeo Bertone ndr), il quale opportunamente riteneva che la mancata presa di posizione da parte del giornale mi stava esponendo a rischi imminenti di uccisione o di fatti letali a danno di miei familiari e congiunti prossimi e lontani». I rapporti tra il cronista e il direttore «dal quale mi attendevo che firmasse assieme a me l’inchiesta», dice Bella, erano già incrinati. Arrivati alla cinquantaduesima pagina, Ciancio decide di chiudere il lavoro. «Tuttora – continua il cronista – mi farebbe piacere conoscere il motivo per il quale prese quella decisione».
«Mi convinsi che non c’erano più le condizioni a Catania per il libero esercizio della professione di giornalista», conclude. Presentate le dimissioni, Salvo Bella si allontana dalla città. E oggi sembra seguire solo distrattamente, da lontano, le vicende giudiziarie del suo ex direttore-editore.