L'oggi pg di Perugia ripercorre a Caltanissetta le indagini svolte sulla strage che uccide Borsellino. «Non fu assolutamente presa in considerazione l'ipotesi che Scarantino potesse collaborare né che si potessero fargli delle avances in questo senso»
Depistaggio, tra le piste del ’92 e l’agenda scomparsa I ricordi di Cardella. «Tra Capaci e via D’Amelio il nulla»
«Ricordo che al mio arrivo trovai una situazione di stasi investigativa, questa era la situazione sulla base delle informazioni e dei discorsi coi colleghi». Inizia da qui il racconto di Fausto Cardella, oggi procuratore generale a Perugia, chiamato all’epoca dal procuratore Tinebra a Caltanissetta per unirsi alle indagini sulla strage di via D’Amelio. Cardella accetta e a inizio novembre è già a lavoro nella procura nissena, dove resterà in servizio fino a dicembre del ’93. Con lui c’è anche una collega dall’esperienza già consistente in fatto di mafia e collaboratori, è Ilda Boccassini. Quando i due arrivano, Vincenzo Scarantino è già stato arrestato. «C’era questo rapporto con gli organi investigativi che lavoravano al caso Borsellino, gli uomini della mobile di Palermo e la Dia di Caltanissetta, e in un secondo momento ci fu anche il reparto operativo dei carabinieri di Palermo, coinvolti da me e dalla collega. Io e la Boccassini eravamo co-delegati delle indagini, io in modo particolare ebbi anche altre indagini, ma sostanzialmente il gruppo investigativo era formato da tutti i magistrati che lavoravano con Tinebra», racconta oggi il magistrato, sentito al processo per calunnia aggravata a carico di Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, ex funzionari del gruppo Falcone-Borsellino.
«Ricordo che c’erano due possibilità investigative – racconta -. La prima che trovammo era quella relativa a un misterioso incontro avvenuto nell’autostrada di cui in qualche modo c’era stata una traccia nelle informative della mobile e una sorta di identikit, un fotofit, una traccia che in qualche modo – non ricordo bene i dettagli – si pensava potesse portare ai Santapaola. Un collegamento che forse si fondava su una somiglianza dell’identikit, non ricordo se ci fossero altri elementi». Questa pista poi, in base ai ricordi conservati per 27 anni da Cardella,di lì a breve non sarebbe più stata coltivata. «La seconda traccia riguardava le dichiarazioni di un certo Ubaldo Lauro, che dopo divenne un collaboratore dell’ndrangheta. Era detenuto in Germania e da lì aveva fatto pervenire la sua volontà di collaborare, perché diceva che era in grado di dare un contributo notevole alle indagini sulle stragi». Lauro quindi viene estradato e ascoltato dai magistrati. «Iniziò a raccontare una serie di cose. La Barbera stava dietro Lauro, seduto, era molto attento, lui aveva molto spinto su queste indagini, ci credeva. Ilda Boccassini non sembrava convinta, prese lei a condurre l’interrogatorio e nel giro di pochissimo tempo una serie di domande incalzanti portarono Lauro a piangere e ad ammettere che si era inventato tutto perché aveva ritenuto che fosse l’unico sistema migliore per rientrare in Italia a scontare la sua pena anziché in Germania. Ricordo il forte disappunto di La Barbera quando si rese conto che in fondo Lauro aveva preso in giro tutti quanti facendoci credere che sapesse delle cose».
Presto i suoi ricordi, orientati dalle domande del pm Paci, approdano alla borsa di Paolo Borsellino e alla famosa agenda rossa. «Fu la Boccassini che si rese subito conto, già nelle prime ore, che c’era questa situazione da regolare, da sanare, perché non c’era un verbale di sequestro della borsa del povero Paolo. Ci si chiedeva “ma che fine ha fatto sta borsa, dov’è” – racconta Cardella -. Ricordo che c’erano già anche le prime polemiche sull’agenda. La Barbera disse; “io me la sono ritrovata in questura, non so come c’è arrivata”, non fu fatto nessun verbale, forse una distrazione. Io fui incaricato di andare a Palermo il giorno dopo, questo fu uno dei primi problemi da risolvere. Andai alla mobile, c’erano altre persone, abbiamo aperto questa borsa, non ricordo cosa ci fosse, ma ricordo cosa non c’era». Insieme al maresciallo Canale avrebbe parlato anche di altro, cioè di «presenze inquietanti sul luogo del delitto e da lì finimmo alla borsa, si parlò di chi fosse andato sul luogo del delitto, ricordo che facemmo accertamenti su Contrada e sulla sua presenza in via D’Amelio. Certamente non arrivò niente né del capitano Arcangioli né di quella famosa fotografia».
Tra le varie ipotesi che vagliano all’epoca, quella meno plausibile era che l’agenda potesse essere andata distrutta nell’esplosione. «Tutte le ipotesi furono prese in considerazione, ma nessuna in modo particolare. Una sola sembrava la meno plausibile – dice oggi Cardella – e cioè che l’agenda fosse andata distrutta nell’esplosione, perché la borsa che l’avrebbe dovuta contenere non era andata distrutta. Un’ipotesi quindi subito scartata, sempre che l’agenda fosse nella borsa. Sull’agenda nei primi tempi ci fu un’indagine serrata: interrogammo il capo della polizia, i collaboratori di giustizia a cominciare da Mutolo, cercammo di ricostruire cosa avesse fatto Paolo negli ultimi giorni». Che, pare, avesse appuntato qualcosa proprio nella sua agenda. L’aggancio per sentire Mutolo fu proprio questo, il fatto che avesse parlato con Borsellino prima della strage e sulla base anche delle dichiarazioni sue e di Marchese. «L’intesa era che sul 416bis avrebbe continuato a indagare Palermo, mentre sulle stragi Caltanissetta – prosegue Cardella -. Ricordo che Mutolo fece i nomi di due persone, Contrada e Signorino, raccontando alcune circostanze sviluppate poi per il primo a Palermo e per il secondo a Caltanissetta. Quando Borsellino sentì queste cose da Mutolo, interruppe l’interrogatorio per un impegno al Viminale. Ricordo che ebbe un forte choc dall’aver sentito i nomi di un collega e di un poliziotto col quale c’era stato in passato una grossa occasione di lavoro. La famosa frase “ho visto la mafia in diretta” che viene attribuita a Paolo Borsellino potrei averla sentita parlando con la vedova, Agnese, lui era rimasto colpito, turbato».
Intanto, Cardella non avrebbe mai saputo di rapporti di Contrada col Sisde e con la procura di Caltanissetta. I suoi approfondimenti si concentrano sulla sua presenza o meno su luogo della strage, e sul profilo di alcuni magistrati tirati in ballo. «La Barbera mi propose di avviare un’investigazione con il Sisde – continua -, gli disse che ne avrei dovuto parlare con la dottoressa Boccassini. Venne proposto il centro Sisde che si trovava a Castello Uteveggio, sulla base che da là sopra si vedesse bene, era un’ipotesi, e per alcune telefonate meritevoli di interesse, non ricordo se fossero sospette perché avvenute a ridosso della strage o per altri motivi. All’epoca non sapevo neppure che La Barbera avesse fatto parte dei servizi di sicurezza. Il Sisde e il Cerisdi diventano tema di indagine tra novembre e dicembre, erano i primi tempi ancora, non c’era ancora un rapporto sviluppato con La Barbera, avvenne nel tempo, in seguito. Ci fu un buon rapporto di collaborazione tra noi e devo dire anche di stima». Accantonato Contrada, le domande del pm Paci si spostano sull’interrogatorio del giudice Domenico Signorino, a cui vengono contestate le dichiarazioni riferite da Mutolo e da Marchese. «Ricordo che commentò “sono perduto” – ricorda Cardella -. Il giorno dopo abbiamo saputo che si era suicidato», notizia che lo sconvolge molto.
In quel periodo lui e i colleghi riflettono su diversi aspetti, sempre nell’ambito delle indagini. «Collegavamo una serie di fatti, dall’omicidio di Lima alla situazione italiana internazionale, all’impasse per l’elezione del presidente della Repubblica, eletto subito dopo la strage. Parlavamo del nulla che avviene tra Capaci e via D’Amelio, cioè che ci sono le solite reazioni e commenti sul non abbassare la guardia ma intanto il 41bis non viene approvato, verrà approvato solo dopo la strage di via D’Amelio – precisa -. Quindi una serie di fatti politicamente e socialmente importanti e coevi all’epoca alle due stragi. Sembrava, anzi era una dichiarazione di guerra». Fino a Scarantino: «Era presentato come uno scassapagliaro, una persona di poco conto, uno di quelli da cui non ti puoi immaginare un omicidio di questo tenore. D’altra parte era imparentato, era cognato di un certo nome, Profeta. E poi c’erano queste intercettazione Candura-Valenti che poi erano state determinanti – spiega -. C’era un atteggiamento laico, apprendista, si vedeva come si sviluppava la situazione, gli indizi c’erano ma non si diceva “abbiamo risolto il caso”. Con la storia poi di Orofino e Andriotta (collaboratore più neutro, non veniva né dalla mafia né dalla Sicilia), la posizione di Scarantino venne un po’ rinforzata».
Cardella lo interroga nel carcere di Novara. «La sua disponibilità a rispondere alle domande era poco più che formale, si esprimeva in un modo…riusciva difficile da comprendere. Non puntammo comunque sulla collaborazione di Scarantino. Quando ci fu la faccenda Orofino, il cane che non aveva abbaiato, il riconoscimento e tutto il resto, raggiunsi l’opinione che ci fosse un quadro indiziario di un certo rispetto, sufficiente, non certamente decisivo, ma qualche cosa poteva consentire di andare avanti. Questa posizione di Scarantino così dura, irriducibile, di chiusura, senza nessuna forma…non fu assolutamente presa in considerazione l’ipotesi che Scarantino potesse collaborare né che si potessero fargli delle avances (per convincerlo ndr). E poi la posizione di Candura ci poneva degli interrogativi, c’erano degli elementi che ci apparivano poco plausibili, vai a rubare la macchina della zia? Insomma, non è così che me la immagino una strage».