Una P colore oro incastonata tra le sbarre della porta di ingresso della casa di Filippo Puglisi. Gli infissi del balcone al secondo piano da cui lanciava le dosi di mariujana adesso sono serrate. Sul muro resta appeso un quadretto del cuore immacolato di Gesù
Viaggio a Picanello dopo blitz antidroga Eredità L’ingegno dei Puglisi e la base in via Timoleone
Una lettera P, scolpita e laccata con il colore dell’oro, incastonata tra le sbarre in ferro del portone di casa. È un segno piccolo ma che nel quartiere Picanello ha un grande significato. Quell’abitazione di due piani, in via Timoleone, è la roccaforte di Filippo Puglisi, l’ultimo baronetto della droga finito dietro le sbarre. Erede di una tradizione di famiglia che condivide con il fratello Alfio e che è stata cominciata da papà Salvatore. Da tutti conosciuto con l’appellativo di Zecchinetta, celebre per una rovinosa caduta da cavallo nel 2014, durante una corsa clandestina tra Pedara e Nicolosi interrotta dalla polizia. Sulla facciata della casa, nel muro arancione del balcone del primo piano è appeso anche un quadretto che raffigura il cuore immacolato di Gesù.
A cinquanta metri dall’ingresso del Campo scuola, in un susseguirsi di strade che si incrociano tra loro, padre e figlio avevano allestito la loro personale piazza di spaccio. «La mafia regna», è la scritta che per diversi anni ha spiccato sul muro giallo che delinea i confini della struttura sportiva di Picanello. Adesso, quella frase è stata coperta da ignoti con della vernice che sembra piuttosto fresca. A pochi passi da lì, stecche di marijuana vendute a dieci euro, pusher e vedette in scooter e biciclette per tanti mesi hanno presidiato l’area in un continuo susseguirsi di clienti. Due giorni dopo il blitz Eredità dei carabinieri, sembra però che gli affari in via Timoleone si siano fermati. Lì attorno non si vedono movimenti particolari, nessun motorino parcheggiato sotto casa e le finestre sono tutte serrate.
La famiglia Puglisi, almeno stando alle parole del pentito
Antonio D’Arrigo, «non è affiliata a nessun gruppo criminale». Anche se gli inquirenti sostengono che «solo un’associazione criminale può avere la forza di impossessarsi di una porzione di strada pubblica per destinarla in modo stabile alla propria attività illecita». Infatti, loro alleati sarebbero stati i fratelli Angelo, Antonino e Rocco Morabito. Broker dello stupefacente partiti proprio da Picanello ma capaci, negli anni, di aprirsi canali privilegiati di rifornimento con i trafficanti albanesi. «I Puglisi sono armati di pistole – continua nei suoi racconti il pentito – e in caso di problemi nella piazza di spaccio intervengono i Morabito».
Nell’organizzazione i ruoli sono definiti ma non inflessibili: anche i vertici scendono in strada, quando possono. Altrimenti si ingegnano. Filippo Puglisi avrebbe fatto non solo da «base logistica per il sodalizio» ma anche da lanciatore. Arrestato il 17 luglio del 2018 e con dei trascorsi da rapinatore di farmacie, viene relegato agli arresti domiciliari nella sua casa di via Timoleone. È dal balcone del primo piano che, a ogni ordinazione, avrebbe lanciato le dosi da vendere. E se non c’erano dipendenti a cui consegnare i soldi, gli acquirenti li lasciavano sotto la sella di uno scooter appositamente parcheggiato di fronte casa. In alcuni filmati delle telecamere posizionate in zona, si vede che il denaro viene sistemato in un secondo momento dentro un contenitore di tela calato con una corda da quel balcone.
Uno schema di spaccio ogni giorno uguale. All’inizio del turno i pusher si avvicinano alla casa di via Timoleone. Lì ricevevano da Puglisi le direttive e le dosi di marijuana già pronte dentro un sacco che, velocemente, si premurano di sistemare nei tanti nascondigli che offre il quartiere: tra gli alberi del piazzale delle Universiadi, tra le auto parcheggiate in strada, nelle panchine e anche dentro i paletti dissuasori di via Vezzosi. Anche gli orari erano fissi: dalle 13 alle 15.30 e poi talvolta anche la sera tra le 19 e le 20. Un accorgimento che, come ricostruito dagli inquirenti, «avrebbe consentito ai consumatori di essere certi di trovare i referenti abituali». Anche in caso di arresto riorganizzarsi non è un problema. L’11 giugno del 2018, per esempio, viene arrestato Giuseppe Nastasi. Il giorno stesso a prendere il suo posto era il figlio Anthony che, fino a quel momento, aveva fatto solo da vedetta. Il padre – non essendogli stata applicata nessuna misura cautelare – tornava in piena attività appena quattro giorni dopo. Gli affari, almeno per il momento, sono stati interrotti.