Palermo rimane (ancora) la capitale della mafia? «Lo era 30 anni fa. Oggi è un polo di resistenza»

«La mafia è a Zurigo come a Londra. Ma resta Palermo la sua capitale». Sono passati circa trent’anni da questa frase di Giovanni Falcone. Un’affermazione pesante, che quasi non ci lasciava scampo. E che oggi torna a martellare nella testa in maniera inevitabile. Quell’etichetta, quella condanna è ancora valida? Specie a fronte di un mafia percepita, oggi, come un fenomeno sempre più globale. «Da quando Falcone ha pronunciato quella frase molto è cambiato», dice subito il presidente di Libera Palermo Carmelo Pollichino. «Il centro nodale degli interessi mafiosi sicuramente oggi non è più Palermo, e nemmeno la Sicilia in generale e proprio per questo la mafia è diventata sempre di più un fenomeno globale: nella dimensione finanziaria, economica e degli interessi – spiega -. Gli interessi delle mafie si muovono su dei canali che sono sempre di più internazionali, dalla droga alle armi, piuttosto che di rifiuti ad esempio. Questo fa pensare che l’epicentro di tutti questi interessi non possa essere ancora Palermo».

Anzi, seguendo il ragionamento adottato da Falcone, e quindi seguendo il denaro per capire chi sono i diretti interessati dei fenomeni criminali, questo epicentro è dislocato sempre più al Nord guardando all’Europa, spostandoci sempre di più a livello internazionale. «Oggi Palermo non è la capitale della mafia, oggi Palermo è la capitale piuttosto di quel sistema che ha fatto una resistenza efficace alla mafia – osserva convinto Pollichino -. Dalla ricerca condotta da Libera si evince che le buone pratiche di riutilizzo dei beni confiscati hanno fatto scuola, così come ne hanno fatta sul territorio di Palermo e provincia le cooperative del consorzio Libera Terra». Ricerca simbolicamente intitolata LiberaIdee, presentata ieri a Palermo al teatro Garibaldi, dopo la prima tappa siciliana di maggio a Catania. Un percorso nato nel 2016, una ricerca sociale partecipata sulla percezione di mafia e corruzione nel nostro Paese, nata da un’esigenza interna di ascoltare i territori e di mettersi in discussione. Una sorta di viaggio condotto su e giù per lo Stivale, e che nelle prossime settimane approderà anche a Modica, Naro, Siracusa ed Enna.

«Quella frase comunque non deve essere sottovalutata – torna a dire Pollichino -, perché non bisogna far passare in secondo piano il fatto che la mafia c’è ed è presente, però con una veste e una dimensione e una dinamica molto diverse, che ci devono portare a interrogarci su cosa sia oggi la mafia e quali devono essere gli strumenti da implementare per affrontarla». Proprio dalla ricerca-azione, come l’ha definita Nando Dalla Chiesa, condotta in questi ultimi anni da Libera sembrerebbe emersa, però, da un lato una maggiore consapevolezza dei siciliani rispetto al fenomeno mafioso, che andrebbe di contro a braccetto con una maggiore arrendevolezza e rassegnazione. È davvero così? E perché? «È un aspetto che dipende dal campione intervistato, in buona parte adulti, che quindi hanno di mafia e antimafia una percezione diversa rispetto ai più giovani – chiarisce il presidente -. Che ci siano comunque delle discrepanze da parte di territori dove il fenomeno mafioso è più culturalmente connaturato rispetto ad altre regioni è il termine che fa la differenza, in fatto di percezione. Il fenomeno mafioso è comunque sempre più nazionale, gli interessi delle organizzazioni mafiose oggi sono sempre più spostati verso le regioni più ricche dove si muovono i grandi appalti e i grandi giri di denaro».

Guai, però, a generalizzare. Cadere preda delle semplificazioni, a volte, è davvero un attimo. «Il fenomeno mafioso è un fenomeno complesso, questo non cambia purtroppo, e quindi in quanto tale deve essere affrontato ed elaborato – spiega ancora -. Parliamo di un livello di complessità ampio in termini sia di tempo che di struttura, quindi non possono essere date delle risposte semplificate. Non bisogna nemmeno spostare l’attenzione tutta al Nord dimenticandoci del Sud, ricordandoci piuttosto che questa complessità ha raggiunto altri territori proprio per questo tipo di natura insita nell’organizzazione criminale. Non vuol dire abbassare la guardia, ma ripensare il paradigma di trasformazione di queste organizzazioni, per ripensare di contro il paradigma di trasformazione delle organizzazioni che le contrastano, solo in questo modo ci può essere un reale contrasto efficace». Tornano di colpo alla mente altre parole, tristemente note, pronunciate da Falcone e ripetute da 30 anni come fossero un mantra, una rassicurazione per esorcizzare una paura che però rimane sempre lì, al suo posto.

La mafia è un fatto umano, diceva, e come tale ha avuto un inizio e avrà quindi anche una fine. Ma possiamo dirlo ancora oggi? «Io ci credo sempre di più, altrimenti non sarei qui – insiste Pollichino -. Come dice don Ciotti, se orientativamente è da 160 anni che parliamo di mafia, dobbiamo chiederci il perché, dobbiamo chiederci a chi interessa non contrastare realmente questa mafia, a cosa è funzionale, a quali tipi di interessi strutturali, istituzionali e imprenditoriali. Questo ci dimostra ulteriormente che è un fenomeno ipercomplesso e che riguarda diverse dimensioni, non soltanto quella della criminalità, e quindi non può essere affrontato soltanto in termini di repressione, ma sempre di più in termini di educazione e di prevenzione». Cioè le due strade che Libera predilige. «Il primo strumento di prevenzione e di contrasto alla mafia è il lavoro, in un territorio dove non ce n’è e non ci sono opportunità di crescita della propria vita, spesso i ragazzi delinquono. Ma non esiste il gene della delinquenza, una persona non è geneticamente delinquente, è il territorio che spesso ti obbliga a iniziare dei percorsi criminali. È solo continuando sulla strada di educazione e prevenzione infatti che potremo ritrovarci a non parlare per altri 160 anni di mafia».

Una mafia che, a dirla tutta, non è solo globale. Ne esiste una che è anche dietro l’angolo, nelle vite di chiunque. «Accade a Palermo, come altrove. Una mafia diffusa che è tante cose, incluso un fatto educativo e formativo», ne è convinto il professore dell’università di Messina Mario Schermi, che ha contribuito alla realizzazione della ricerca di Libera. «È un fatto che alcuni giovani crescano alle mafie, tutti i giorni. Ragazzi che le mafie non ce le hanno fuori, ma dentro. Il cambiamento di queste biografie può succedere solo se siamo in grado di portare profondi cambiamenti nelle loro vite. La mafia è “un mondo a sé che ci comprende”, così la raccontano alcuni di loro, i ragazzi di mafia. Qualcosa che sta fuori ma che è sopra di te, che ti comprende, che ti tiene dentro. La mafia è tristezza, una palude che offre protezione e prigionia, un’infernale anfora capovolta. Esiste quindi un modo mafioso di stare al mondo. Come quello di un altro ragazzo, Tony ‘u boss, si firmava così come a volersi creare una sua identità. Ed è questo che noi oggi dobbiamo cominciare a contrastare». 


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